VIII
Il Dono della Sapienza
S. TOMMASO D'AQUINO

Crocifissione e santi, affresco dipinto dal Beato Angelico nel Convento di San Marco, Firenze

Nella Crocifissione [Crocifissione e santi, grande affresco nel Convento di San Marco, Firenze] del Beato Angelico due personaggi attirano principalmente l'attenzione dell'anima domenicana; e sono i due santi che stanno all'estremità del gruppo collocato a destra della croce. Al primo posto, in ginocchio, con le mani stese in un gesto di dolore e di compassione, S. Domenico. Il suo sguardo bagnato di lacrime, si alza a metà verso il Crocifisso, come se fosse ancora trattenuto da un altro spettacolo, quello della Vergine che, dall'altro lato della croce, sostenuta da Giovanni, da Maddalena e da Maria, sta per cadere in deliquio. All'ultimo posto, in piedi, con le mani ripiegate sul petto, con la testa protesa come per veder meglio, S. Tommaso d'Aquino [nato a Roccasecca (nel 1225 circa) dalla famiglia nobile dei conti d’Aquino, morto nell’abbazia di Fossanova il 7 marzo 1274; detto Doctor Angelicus, canonizzato dal papa Giovanni XXII nel 1323, proclamato Dottore della Chiesa nel 1567]. Il suo sembiante riflette un’impressione dolorosissima e concentrata; ma non piange, lui, bensì guarda: guarda fissamente Cristo crocifisso; e la commozione sorda che lo invade, anziché distogliere la sua pupilla, sembra anzi scavare la sua orbita, e trarre dalle profondità del suo occhio una fiamma intensa, come nel nero fondo di un vulcano si vede sorgere, potente e contenuto, un ribollimento di lava ardente.

S. Domenico piangente, ma col cuore diviso tra il dolore di Cristo che espia per le anime e il dolore delle anime, che, ai piedi della croce, cominciano nella Vergine Maria il lungo martirio della loro unione con i patimenti di Cristo, ecco veramente l'Apostolo, ecco la sua doppia vocazione: contemplazione con il cuore e misericordiosa comunicazione. Ecco l'uomo del dono della Scienza! S. Tommaso, guardante in faccia il tremendo sacrificio, e, nonostante l'orrore del supplizio, padroneggiante i suoi tratti, come per non lasciare sfuggire nulla, come per entrare più a fondo nel mistero, ecco il Dottore, - ecco la sua vocazione, non più divisa, ma unificata nella sua doppia virtù: assorbirsi nel lume per diventare lui stesso luminoso, e, senza andarsene, illuminare a distanza, - ecco il rappresentante del dono della Sapienza.

La sapienza, come egli ci insegna, è anzitutto una virtù intellettuale. Per essa ci assuefacciamo a giudicare ogni cosa dall’alto, dal più alto possibile, dal punto di vista divino. Mentre la scienza si ferma alle ragioni prossime, che non dànno mai se non una mezza luce, la sapienza, d'un balzo, ricorre alla spiegazione suprema. Il dotto, per spiegare l'armonia della natura, parlerà delle rivoluzioni siderali, di orbite, di rotazione, ecc.; egli dice il vero, ma non dà la ragione ultima. Il sapiente, teologo o filosofo, fa appello all'intelletto ordinatore di Dio. Con una parola egli ha spiegato tutto, se non rivelato tutto; perché dove si ferma la ragione, comincia il mistero.

E per questo lo Spirito Santo, che «scruta le profondità di Dio» [Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio (1 Corinzi 2,10)], con un dono ci associa alla sua propria sapienza. Che differenza tra la virtù e il dono! Difatti in che consistono la nostra teologia e la nostra filosofia se non «nell'attingere l'ignoranza nella sua più alta sorgente»? Che cosa facciamo noi, teologi, se non stabilire, con maggiore esattezza che altri, e più da vicino, le sponde di abissi neri di misteri o di soli accecanti, inaccessibili nel loro centro allo sguardo umano, sia pur guidato dall'oscura chiarezza che cade dalla fede? E non è forse quello che sentono anche le anime semplici, quello di cui soffrono a volte i più intelligenti? Per la fede, trovarsi trasportati come davanti a una parete coperta di caratteri che ci annunziano le cose più sublimi e più consolanti, ma non poter penetrare il muro che ce le nasconde, ­ vedere che bisogna credere e non poter vedere, non fosse che per un istante, quello che si crede con tutta l'anima: o dura prova delle intelligenze, aperte quanto fedeli, per le quali il non credere sarebbe più doloroso che il non poter vedere!

O Dottore della Crocifissione, dove dunque l'hai trovato, codesto occhio che, fissando il mistero, non resta vuoto, ghiacciato, morto come il nostro?, che, là dove io mi perdo nel vago, si mette a vivere d'una vita inaudita?, d'una vita che non conobbe l'occhio di Archimede riflettente la gioia del suo Eureka [secondo la leggenda questa parola, che vuol dire "Ho trovato!" in greco antico, sarebbe stata pronunciata da Archimede un giorno mentre faceva il bagno: immergendosi nella vasca e avvertendo la spinta idrostatica dell'acqua, ne aveva compreso la causa], e neppure l'occhio di Newton che per la prima volta intravide il mistero dei Cieli? Sei tu, o Beato Angelico, che in una fuga di immaginazione, hai trasfigurato così il tuo modello? Ma non è così che ci s'immagina, Tu lo vedesti. Il pittore Angelico comprese il Dottore Angelico. Ecco, certo, la verità.

S. Tommaso d’Aquino, dettaglio di una pala dipinta dal Beato Angelico

O tu che così ti rivelasti all’anima dell'Angelico, per la virtù di questa santa immagine rivèlati a noi che non sappiamo guardare come te e che avremmo tanto bisogno di fortificare la nostra fede mediante le illuminazioni dei Doni. Tu che, visibilmente, penetri i misteri del Figlio di Dio incarnato e morente sulla croce, parla, noi ti ascoltiamo. I tuoi occhi, o veggente, saranno i nostri occhi. Tu che sperimenti le cose divine, scoprici qualcosa di quelle realtà alle quali il nostro cuore è sospeso, e davanti alle quali tuttavia le nostre intuizioni e i nostri ragionamenti di teologi o di fedeli restano impotenti.

E l'affresco si è animato. E, simile all'acqua che si spande fuori del bacino profondo dove scaturisce una sorgente viva, io odo rispondere la voce che già soddisfaceva alle care importunità del carissimo compagno, fra Reginaldo [Reginaldo da Piperno (Piperno, .?. – Anagni, 1290),domenicano lettore in teologia, eletto da San Tommaso suo confessore e amico]:

«Figlio mio, guarda questo Crocifisso. E' Dio. E' Dio incarnato per i nostri peccati. Per i nostri peccati, intendi? Per molto tempo ho ragionato come un filosofo. Mi pareva bello vedere nell'Incarnazione del Verbo il coronamento dell'universo, la gloria dell'umanità. Ero come titubante tra i santi libri che da per tutto mi mostravano la Redenzione come la causa dell'Incarnazione e questa sublime idea di un mondo che fa capo ad un essere divino, a un uomo i cui piedi riposerebbero sopra la terra nostra e sua, ma la cui testa, meglio che la vetta delle più alte montagne, abiterebbe nella luce inaccessibile della Deità (59). Ma, in questo momento, tutto si rischiara alla luce di questa croce, e vedo... La redenzione, ecco lo scopo, il solo scopo. Perché l'Incarnazione? Per la Redenzione. Non è principalmente per manifestare la divina potenza che un Dio s'incarnò; non è neppure per rappresentare la bontà di Dio e la sua liberalità divina; ma per far risplendere la sua misericordia, il più inenarrabile dei suoi attributi (60). Ora tutto si risolve nella santa parola: «Là dove abbondò la colpa, sovrabbondò il perdono.» [La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia (Romani 5,20)] ­ «Egli venne a salvare quello che era perduto» [il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto (Luca 19,10)]. Se dunque l'uomo non avesse peccato, egli non sarebbe venuto. «Togliete il male, togliete le lividure, e il medico non è più necessario». - «O felice colpa che ci meritò un tanto redentore (61)!» [O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem (citazione dall’Exsultet o Preconio Pasquale)] - Bisognò fare il sacrificio di un motivo inferiore; di una bella idea, ma che era solo un'idea umana, dovetti piegare una volta di più la mia intelligenza sotto i dettami della fede: ed ecco che, per la fede, ho ritrovato la luce, la causa più alta del mistero si è rivelata; spiegavo l'Incarnazione come un uomo: ora ne vedo il motivo come Dio stesso lo vede. E questo motivo sono i nostri peccati; ed è la misericordia divina. E' questa croce che me lo rivela, ed ecco perché io la guardo così».

Che lezione per noi, filosofi e teologi troppo umani, questa conversione intellettuale di un S. Tommaso, questa lieta cancellatura delle sintesi più seducenti davanti all'umile parola del Vangelo, dell'Apostolo, dei santi! E che lezione per noi, fedeli, che troppo spesso misuriamo le cose di Dio, i suoi insegnamenti, il governo della sua Chiesa, la condotta dei suoi ministri, dalle corte vedute che procedono dai nostri pretesi lumi, dalle nostre passioni o impressioni del momento, dalle nostre immaginazioni! Ah! noi non sappiamo abbastanza giudicare di tutte le cose, e particolarmente delle cose di Dio dalla causa più alta. Siamo pieni di noi stessi e, se non in fondo, almeno nella pratica reale della vita, troppo poco, ci diamo pensiero, quando giudichiamo, del punto di vista di Dio. Egli stesso disse: «I vostri pensieri non sono i miei pensieri e le vostre vie non sono le mie vie» [Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore (Isaia 55,8)]. Bisognerebbe pure uscire da una così funesta abitudine; la sola cura della verità lo esige.

Ma, come possiamo dunque elevarci abbastanza da considerare ogni cosa con gli sguardi di Dio stesso? Una tale sapienza non è forse fatta per esseri totalmente sciolti dalle nostre miserie e dalle nostre debolezze come sono i beati?

S. Tommaso stesso ci darà il suo segreto. Solo lo Spirito di Dio sa bene i misteri divini, ci dice egli. Con le nostre forze intellettuali noi arriviamo a scoprirne alcuni lineamenti. Ma che cosa è tutta la nostra filosofia in confronto del minimo raggio che allo Spirito Santo piacesse di mandarci dal seno della piena luce in cui egli abita? Entrare in relazione con lo Spirito Santo, ecco dunque il segreto della sapienza. «Ora - dice l'Apostolo - colui che aderisce a Dio, - intendi: per la carità, - non forma che uno spirito con il suo» [Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito (1 Corinzi 6,17)] (62). Il che certo non significa che noi per l'amore diventiamo un medesimo essere con Dio, ma che, essendo uniti a Dio per un sentimento profondo del cuore, - non del nostro cuore lasciato a se stesso, ma del nostro cuore fortificato, fissato da Dio stesso - noi non amiamo se non quello che egli ama, ed entriamo in una santa e abituale dipendenza di fronte a lui.

L'effetto di questa dipendenza effettiva deve prima di tutto farsi sentire nella conformità dei nostri giudizi con i suoi. E poiché da noi stessi non possiamo elevarci fino alle concezioni di Dio, bisognerà dunque che il nostro Dio, per rendere effettiva la sua amicizia, ci faccia parte dei giudizi della sua sapienza. Ecco che cosa è formare un solo spirito con Dio. «E' l'essere istruiti dalla sua unzione, come dice S. Giovanni, e questo in ogni cosa» [E quanto a voi, l'unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna (1 Giovanni 2,27)] (63): il che vuol dire che l'anima, piena dell'amore di Dio si sente dolcemente e come con unzione toccata dai lumi superiori che la sollevano a un'altezza di vedute che non sapeva, a una purezza, a una penetrazione, a una dominazione del suo sguardo intellettuale che non sembra più essere di questa terra. Così, sulla vetta di una montagna, il viaggiatore contempla ogni cosa, e il mare procelloso e i colli rugosi, e le silenziose foreste e le città piene di rumore umano, e sente il suo cuore invaso dall'ineffabile gioia di essere per un istante distaccato dalle particolarità della terra e di poter dominarla con un solo sguardo.

Nulla è riposante come un tale spettacolo: esso abbonda di riflessioni salutari. La piccolezza di quello che di solito irrita le nostre passioni ci appare in tutta la sua realtà. L'anima che vede dall’alto è di tratto ingrandita e pacificata. Per questo senza dubbio S. Agostino annette al dono della Sapienza la beatitudine dei pacifici: «Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio»(64). La pace non è altro che la tranquillità dell'ordine. Ora, solo colui che è capace di assicurare l'ordine, vede le particolarità nell'insieme, e, con uno sguardo superiore, giudica quello che è grande e quello che è piccolo. Per pacificare la propria vita, per pacificare la vita degli altri, è dunque assolutamente necessario elevarsi sopra di sé, sopra di tutti, e giudicarsi nella verità. Ma come fare? Non possiamo separarci da noi stessi, e poi non ci tocca vivere nel mondo? Come possiamo dunque elevarci sopra di noi stessi? Dov'è la montagna ove potremo, con uno sguardo libero e dominatore, valutare con verità la nostra vita e quella degli altri?

Questa montagna è Dio. Dio domina, per natura, la sua creazione: possono a loro volta dominarsi e giudicare di tutto, come Dio, solo quelli, a cui egli comunica il suo giudizio. Ed ecco perché la figura del Figlio di Dio fatto uomo ci appare, nel suo Vangelo, con un'espressione unica di dominazione e di pace. Ecco un sapiente: ci giudica con pensieri diversi dai nostri; pensieri che egli dice con tutta semplicità, e che sono così profondi e pieni da far riflettere i sapienti di tutti i tempi. Ma dominandoci, non ci schiaccia; non finisce di spezzare la canna già rotta; non spegne il lucignolo che fuma ancora; è un pacificatore questo sapiente. La Divinità che abita in lui è come una cima, donde egli considera e giudica nella loro verità tutte le nostre cause di turbamenti e di guerra; donde fa irradiare nelle anime che credono alla sua parola l'ordine, la tranquillità e la pace. Ecco il modello.

E' anche la ricompensa, perché disse: «Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio». Sì, qualcosa di questa dominazione intelligente e serena, di questo ordine tranquillo che caratterizzano la fisionomia del Figlio di Dio passerà nei sapienti della terra, e l'umanità, colpita da questa rassomiglianza, la proclamerà ad alta voce.

Vedete S. Tommaso d'Aquino. Qual teologo, nei giudizi che trascorse l'intera vita a formulare su tutte le cose divine ed umane, fece maggiore stima della più alta causa, e si attenne di più al proprio pensiero di Dio? Chi fu più sapiente di quella sapienza che viene dall'Alto? Ma qual figura più intelligentemente serena, qual vita più pacifica, qual opera più pacificante?

No, dopo il Vangelo, dopo l'Apostolo, non vi è lettura che dia alla mente l'impressione della tranquillità nell'ordine come quella delle opere di S. Tommaso. Gesù vede: S. Tommaso ragiona; ecco la differenza, ed è immensa. Ma i loro spiriti sembrano - oserò dirlo? ­ imparentati! Semplicità e profondità, universalità e finitezza di particolari, sublimità e condiscendenza, queste marche di fabbrica del Vangelo, noi le troviamo nell'opera di San Tommaso, in minor grado, ma in un grado eminente. Non sarebbe per avventura un verificarsi della legge posta dallo Spirito Santo stesso: «Colui che aderisce a Dio forma un solo spirito con lui»? E la rassomiglianza dell'intelligente e serena figura del Dottore Angelico con la fisionomia intellettuale di Nostro Signore, non sarebbe il compimento della promessa di felicità fatta ai sapienti: «Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio»?


NOTE

(59) “hujus quaestionis veritatem solus ille scire potest qui natus et oblatus est, quia voluit. Ea enim quae ex sola Dei voluntate dependent, nobis ignota sunt, nisi inquantum nobis innotescunt per auctoritates sanctorum, quibus Deus suam voluntatem revelavit: et quia in canone Scripturae et dictis sanctorum expositorum, haec sola assignatur causa incarnationis, redemptio scilicet hominis a servitute peccati; ideo quidam probabiliter dicunt, quod si homo non peccasset, filius Dei homo non fuisset: quod etiam ex verbis Leonis Papae in sermone de Trinitate expresse habetur. Si enim, inquit, homo ad imaginem et similitudinem Dei factus, in suo honore mansisset, creator mundi creatura non fieret, aut sempiternus temporalitatem subiret, aut aequalis Deo patri Dei filius formam servi assumeret. Item Augustinus in oratione ad beatam virginem: ut quid enim nescium peccati pro peccatoribus pareres, si deesset qui peccasset? Aut quid mater fieres salvatoris, si nulla esset indigentia salutis? Item super illud Matth. 1: ipse enim salvum faciet populum suum, Augustinus: si homo non peccasset, virgo non peperisset. Alii vero dicunt, quod cum per incarnationem filii Dei non solum liberatio a peccato, sed etiam humanae naturae exaltatio, et totius universi consummatio facta sit; etiam peccato non existente, propter has causas incarnatio fuisset: et hoc etiam probabiliter sustineri potest” (Super Sent., lib. 3 d. 1 q. 1 a. 3 co.).
(60) “Et ideo, ad consummatam hominis perfectionem, conveniens fuit ut ipsum verbum Dei humanae naturae personaliter uniretur. Secundo potest accipi ratio huius congruentiae ex fine unionis, qui est impletio praedestinationis, eorum scilicet qui praeordinati sunt ad hereditatem caelestem, quae non debetur nisi filiis, secundum illud Rom. VIII, filii et heredes. Et ideo congruum fuit ut per eum qui est filius naturalis, homines participarent similitudinem huius filiationis secundum adoptionem, sicut apostolus ibidem dicit, quos praescivit et praedestinavit conformes fieri imagini filii eius. Tertio potest accipi ratio huius congruentiae ex peccato primi parentis, cui per incarnationem remedium adhibetur. Peccavit enim primus homo appetendo scientiam, ut patet ex verbis serpentis promittentis homini scientiam boni et mali. Unde conveniens fuit ut per verbum verae sapientiae homo reduceretur in Deum, qui per inordinatum appetitum scientiae recesserat a Deo” (Summa Theol., 3, q. 3 a. 8, co.). “omne opus divinum ex potentia, sapientia et bonitate procedit; sed tamen opus aliquod appropriatur potentiae, sapientiae vel bonitati, secundum quod in eo mirabilius apparet id quod pertinet ad aliquod praedictorum attributorum. Potentia autem importat absolutam rationem principii aliquid producentis; sed sapientiae est ordinare; unde ad sapientiam pertinet modus producendi rem, quo aliquid ordinare in esse producitur; sed bonitas, quae habet rationem finis, respicit motivum ad producendum: et ideo in opere creationis, in quo admirabile redditur hoc praecipue quod res in esse productae sunt, manifestatur maxime divina potentia; sed in opere gubernationis, quo res ordinatae disponuntur, redditur ipse ordo rerum admirabilis, et ideo sapientiae attribuitur; sed opus recreationis admirabile redditur ex ipso motivo, quia non ex operibus justitiae quae fecimus, sed propter suam bonitatem salvos nos fecit; unde attribuitur praecipue bonitati. Et quia ex hoc aliquid dicitur misericorditer esse factum quod non ex debito datur, sed ex bonitate largientis; ideo opus misericordiae, inquantum hujusmodi, bonitati appropriatur” (Super Sent., lib. 4 d. 46 q. 2 a. 1 qc. 3 co.). “Deus dicitur parcendo et miserendo suam omnipotentiam maxime manifestare, non tam quoad substantiam facti, quam quoad licentiam faciendi; ille enim qui est alicui superiori potestati subjectus, non potest licite dimittere poenas a superiori potestate constitutas. Ex hoc ergo quod Deus poenas dimittit, et supra debitum largitur; ostenditur quod ipse ex propria potestate et auctoritate omnia operatur; et quod ipse non est superiori potestati subjectus. Sed quantum ad substantiam facti praecipue manifestatur bonitas in parcendo; et ideo opus misericordiae bonitati est attribuendum” (Super Sent., lib. 4 d. 46 q. 2 a. 1 qc. 3 ad 1). “justificare impium dicitur majus quam creare caelum et terram, inquantum ad nobilius esse perducitur quis per justificationem quam per creationem; vel inquantum in creatione non est aliquid quod repugnet creanti, cum sit ex nihilo, sicut in justificatione repugnat justificanti inordinata voluntas. Unde quamvis opus justificationis potentiam manifestet, specialiter tamen commendat bonitatem, inquantum ipsa est sola quae ad justificandum movet, cum ex parte justificandi magis inveniatur quod justificationi repugnet” (Super Sent., lib. 4 d. 46 q. 2 a. 1 qc. 3 ad 2).
(61) “aliqui circa hoc diversimode opinantur. Quidam enim dicunt quod, etiam si homo non peccasset, Dei filius fuisset incarnatus. Alii vero contrarium asserunt. Quorum assertioni magis assentiendum videtur. Ea enim quae ex sola Dei voluntate proveniunt, supra omne debitum creaturae, nobis innotescere non possunt nisi quatenus in sacra Scriptura traduntur, per quam divina voluntas innotescit. Unde, cum in sacra Scriptura ubique incarnationis ratio ex peccato primi hominis assignetur, convenientius dicitur incarnationis opus ordinatum esse a Deo in remedium peccati, ita quod, peccato non existente, incarnatio non fuisset. Quamvis potentia Dei ad hoc non limitetur, potuisset enim, etiam peccato non existente, Deus incarnari” (Summa Theol., 3, q. 1, a. 3,. co.).
(62) “Huiusmodi autem compassio sive connaturalitas ad res divinas fit per caritatem, quae quidem unit nos Deo, secundum illud I ad Cor. VI, qui adhaeret Deo unus spiritus est. Sic igitur sapientia quae est donum causam quidem habet in voluntate, scilicet caritatem, sed essentiam habet in intellectu, cuius actus est recte iudicare, ut supra habitum est” (Summa Theol., 2-2, q. 45, a. 2, co.).
(63) “sapientia de qua loquimur, sicut dictum est, importat quandam rectitudinem iudicii circa divina et conspicienda et consulenda. Et quantum ad utrumque, ex unione ad divina secundum diversos gradus aliqui sapientiam sortiuntur. Quidam enim tantum sortiuntur de recto iudicio, tam in contemplatione divinorum quam etiam in ordinatione rerum humanarum secundum divinas regulas, quantum est necessarium ad salutem. Et hoc nulli deest sine peccato mortali existenti per gratiam gratum facientem, quia si natura non deficit in necessariis, multo minus gratia. Unde dicitur I Ioan. II, unctio docet vos de omnibus. Quidam autem altiori gradu percipiunt sapientiae donum, et quantum ad contemplationem divinorum, inquantum scilicet altiora quaedam mysteria et cognoscunt et aliis manifestare possunt; et etiam quantum ad directionem humanorum secundum regulas divinas, inquantum possunt secundum eas non solum seipsos, sed etiam alios ordinare. Et iste gradus sapientiae non est communis omnibus habentibus gratiam gratum facientem, sed magis pertinet ad gratias gratis datas, quas Spiritus Sanctus distribuit prout vult, secundum illud I ad Cor. XII, alii datur per Spiritum sermo sapientiae, et cetera” (Summa Theol., 2-2, q. 45, a. 5, co.).
(64) “septima beatitudo congrue adaptatur dono sapientiae et quantum ad meritum et quantum ad praemium. Ad meritum quidem pertinet quod dicitur, beati pacifici. Pacifici autem dicuntur quasi pacem facientes vel in seipsis vel etiam in aliis. Quorum utrumque contingit per hoc quod ea in quibus pax constituitur ad debitum ordinem rediguntur, nam pax est tranquillitas ordinis, ut Augustinus dicit, XIX de Civ. Dei. Ordinare autem pertinet ad sapientiam; ut patet per philosophum, in principio Metaphys. Et ideo esse pacificum convenienter attribuitur sapientiae. Ad praemium autem pertinet quod dicitur, filii Dei vocabuntur. Dicuntur autem aliqui filii Dei inquantum participant similitudinem Filii unigeniti et naturalis, secundum illud Rom. VIII, quos praescivit conformes fieri imaginis Filii sui, qui quidem est sapientia genita. Et ideo percipiendo donum sapientiae, ad Dei filiationem homo pertingit” (Summa Theol., 2-2, q. 45, a. 6, co.).