In questa pagina pubblichiamo un intero libro (tradotto dal francese) del padre domenicano Gardeil.
Il perché di questa scelta è piuttosto evidente, in quanto i due temi del libro sono temi centrali anche per il nostro sito: lo Spirito Santo, i santi domenicani. Precede il libro una breve nota sull’autore, Ambroise Gardeil.

 

Ambroise Gardeil (Nancy 1859 - Parigi 1931) è stato un teologo domenicano, fra i maggiori neotomisti francesi. Professore di teologia fondamentale e dogmatica, commentatore di San Tommaso, rettore del Collegio teologico dei domenicani della provincia di Francia, partecipò alla fondazione (1893) della “Revue thomiste”, di cui fu assiduo collaboratore (pubblicandovi, fra l’altro, studi contro M. Blondel, la filosofia dell’azione e l’evoluzione del dogma). Aderendo al realismo tomista, fu avversario della gnoseologia contemporanea; scrisse opere apologetiche (La crédibilité et l’apologétique, 1908, 2a ed. 1912; Le donné révelé et la théologie, 1915) e di teologia mistica (La structure de l’âme et l’expérience mystique, 2 voll., 1927).

Gardeil, Ambroise, I doni dello Spirito Santo nei Santi Domenicani, studio di psicologia soprannaturale e letture per il tempo della Pentecoste; traduzione del P. Giuseppe Silvio Nivoli, Torino, Roma; Marietti, 1934, 150 pagg.

edizione originale francese:

Les Dons du Saint-Esprit dans les saints dominicains, étude de psychologie surnaturelle et lectures pour le temps de la Pentecôte, Paris, V. Lecoffre, (1903), 218 pagg.


[Considerando che la traduzione italiana è un po’ invecchiata, si è giudicato opportuno intervenire con piccoli ritocchi in modo da avvicinare il testo alla lingua italiana corrente; inoltre sono state riviste e corrette tutte le citazioni, spesso imprecise, talvolta mancanti dei riferimenti bibliografici; per non cambiare il numero l'ordine delle note in fondo al testo, alcune note sono state inserite, fra parentesi quadre, all’interno del testo]

 

INDICE

 

 

INTRODUZIONE: L’Ufficio dei Doni dello Spirito Santo.

 

I.  I Doni dello Spirito Santo e la Vita soprannaturale.

 

II.  Il Dono del Timore: san Lodovico Bertrando, san Vincenzo Ferreri, santa Rosa da Lima

 

III.  Il Dono della Fortezza: santa Caterina de' Ricci, San Giovanni di Gorcum, san Pietro martire.

 

IV.  Il Dono della Pietà: santa Agnese di Montepulciano, san Pio V, san Raimondo da Peñafort

 

V.  Il Dono del Consiglio: sant'Antonino 

 

VI.  Il Dono della Scienza: san Domenico, san Giacinto

 

VII.  Il Dono dell'Intelletto: santa Caterina da Siena

 

VIII.  Il Dono della Sapienza: san Tommaso d'Aquino

 

IX.  I Doni dello Spirito Santo nel Cuore purissimo della Vergine Maria.

 

PENTECOSTE DOMENICANA: I Doni in Cielo

 


 

 

 

 

INTRODUZIONE

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L'Ufficio dei Doni dello Spirito Santo.

 

     L'esistenza, in ogni anima giusta, dei Doni dello Spirito Santo, è una verità universalmente ammessa nella Chiesa cattolica. Se nessuna definizione formale attribuisce loro una essenza distinta da quella delle virtù infuse, tuttavia il linguaggio della S. Scrittura e della maggior parte dei Padri, le preghiere della liturgia, l'accordo crescente dei teologi, la voce del popolo cristiano ce li presentano come perfezioni soprannaturali speciali, superiori alle virtù infuse, eccettuate le virtù teologali.

     Ma qual è dunque l'ufficio dei Doni nell'economia della nostra vita spirituale? Questione interessante in supremo grado! Dalla sua soluzione dipende forse la cognizione delle più meravigliose tra le operazioni dello Spirito Santo nelle anime nostre, l'intelligenza dei nostri più alti doveri soprannaturali come dei più urgenti, e perfino, giacché Dio non ci giustifica senza di noi, il frutto e il felice successo di queste divine operazioni.

     Con la scorta di S. Tommaso e del pio teologo che pare abbia penetrato più profondamente il suo pensiero su quest'argomento, Giovanni di S. Tommaso [teologo tomista portoghese (Lisbona 1589-Fraga 1644); prese in religione il nome a Sancto Thoma per devozione al santo italiano; è stato uno dei più famosi commentatori di San Tommaso d’Aquino], noi cercheremo di renderci conto dell'ufficio dei Doni nell'anima fedele, Divideremo questo studio in due parti: 1° Quello che sarebbe la Carità senza i Doni; 2° Quello che è la Carità con i Doni.

 

I.

 

CHE COSA SAREBBE LA CARITA' SENZA I DONI.

 

Vere tu es Deus absconditus, Deus Israel Salvator.

(Isaia 45,15)

 

     In questa parola: Carità, noi troviamo concentrata tutta la nostra psicologia soprannaturale. Per la grazia santificante Iddio abita in noi e si fa ospite dell’anima nostra. Per le virtù morali infuse egli si assoggetta la nostra attività giornaliera. La virtù teologale della carità è come il punto di penetrazione per il quale Dio, già residente nell'essenza dell'anima, invade le sue potenze, il centro donde Egli dirige le operazioni delle virtù infuse. E' dal cuore che Dio comincia la divinizzazione del nostro intelletto e della nostra volontà, perché il cuore contiene in sé adunato tutto quello che si spiega nell'attività dell'uomo. Le virtù infuse non faranno altro che particolareggiare il bene che la carità ha posto nel suo cuore. La carità, punto di contatto della grazia con i comportamenti, focolare di tutta la psicologia soprannaturale, incarna, direi, tutto quanto l'ordine soprannaturale.

    A prima vista, tuttavia, la carità rassomiglia a tutte le virtù infuse. E', come esse, un abito soprannaturale. L'abito, nell'ordine naturale, nasce dall’esercizio ripetuto degli atti, e le virtù naturali s'acquistano mediante lo esercizio degli atti moralmente buoni. Le virtù soprannaturali, all'opposto, sono stabilite d'un tratto nelle nostre facoltà. Dio, infinitamente potente, fa a meno dell’attività umana, la quale in ciò non può nulla, e inserisce come degli innesti divini nel tronco selvatico che gli presenta la nostra natura. La virtù infusa, sostenuta nell’essere dalla facoltà di cui essa aspira il succo, trasforma l'attività di essa. Dà alla nostra cognizione e alla nostra volontà il potere di portarsi verso un bene divino. E, siccome è proprietà dell'abito l'essere a disposizione dell'umana volontà, di modo che il suo fortunato possessore può usarne quando vuole, così farà egli della virtù infusa. Noi facciamo uso, come a volontà, della presenza di Dio in noi e della comunicazione ch'Egli ci dà della sua propria vita.

     Ma la carità supera tutte le altre virtù in ciò che essa è l'effetto proprio dello Spirito Santo. Tutta la SS. Trinità abita nell'anima nostra per la grazia. Lo Spirito Santo, che è amore, trova la dimora appropriata nel cuore dell'uomo, e la carità effettua quest'abitazione. Ecco il senso profondo di queste parole di S. Paolo: L'amor di Dio è stato diffuso nelle anime nostre dallo Spirito Santo che ci fu dato [La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Romani 5,5)]. Lo Spirito Santo non produce l'amore di Dio in noi come un agente esterno, che diventa estraneo quando ha finito di agire, ma lo produce come una causa interna che risiede in quest'amore, perché egli ci fu dato, dice l'Apostolo. La sua attività è come quella di un'anima sempre presente a quello ch'essa fa e che la sua operazione non abbandona mai. Quando il giusto ama Dio, non agisce da solo; ma in fondo al suo cuore ha lo Spirito di Dio, ed è questo Spirito che gli fa dire, con tutta verità e con ogni efficacia, il nome dell'amor filiale: Padre mio!

     Dunque il cuore dell'uomo per mezzo della carità è pienamente rettificato di fronte a Dio, nostro ultimo fine. Ma l'ordine delle cose esige che il cuore irradii in tutta la nostra attività. Difatti le virtù infuse operano tutte sotto l'influsso dell'amor divino: fede e speranza, prudenza e giustizia, fortezza e temperanza. Vale a dire, lo Spirito di Dio, anima della nostra carità, trova in queste virtù come i canali per i quali, in tutte le parti dell'uomo, intelletto, volontà, e perfino nelle stesse passioni, si espande l'amore ch'egli ispira al cuore del giusto. «Benedici il Signore, o anima mia - dice il profeta ispirato dallo Spirito Santo - o potenze dell'anima mia, benedite tutte il suo santo nome» [Benedici il Signore, anima mia, quanto è in me benedica il suo santo nome (Salmi 102,1)].

 

     Qui si presenta una questione la cui soluzione ci condurrà a riconoscere l'ufficio dei Doni dello Spirito Santo. In qual modo lo Spirito Santo, presente nei nostri cuori per la carità, opera sopra la nostra psicologia intima? In quest'espansione segue egli le leggi del suo essere, oppure si piega alle nostre leggi? Il suo intervento nel nostro operare è una semplice sopraelevazione della nostra attività psicologica, oppure è un'irradiazione di ciò che vorrei mi si permettesse di chiamare sua divina psicologia? Lo Spirito Santo, presente nel nostro cuore, è il sole radioso i cui raggi attraversano vittoriosamente le fitte nubi, e la cui virtù va, direttamente e per se stessa, a vivificare tutti gli esseri? Oppure, prigioniero benefico, s'avvolge, come d'una nube, delle forme proprie dell'operare umano?

     E' permesso di applicare a una materia così alta i principii e le leggi che reggono l'ordine della natura? Sì certamente, Poiché nel caso presente, come in tanti altri, S. Tommaso così ha fatto. Ardimento sublime di questa mente salda fra tutte: a lui non s'affacciò mai il pensiero che l'ordine soprannaturale fosse opposto all'ordine naturale. Egli non esitò mai a trasferire nel primo i concetti del secondo, facendo subir loro soltanto le modificazioni che la perfezione del loro nuovo stato esigeva. Ecco perché dobbiamo rispondere subito che, essendo la carità e le virtù infuse realmente e propriamente virtù attive, e le virtù attive essendo essenzialmente perfezioni delle potenze attive umane, lo Spirito Santo, che risiede nella carità, opera in noi nel modo delle virtù umane, e si piega alla maniera di operare delle nostre facoltà umane.

     Il giusto, arricchito delle virtù soprannaturali, resta pertanto il vero e principale autore delle sue operazioni soprannaturali. E' veramente lui che dirige i movimenti del suo intelletto e del suo cuore; la sua ragione rimane alla testa di tutta la sua psicologia soprannaturale. Lo Spirito Santo, per mezzo delle virtù, si è diffuso nelle sue potenze, fortemente ma soavemente, come un fuoco riscalda insensibilmente il cuore, come una luce segreta rischiara senza manifestare la sorgente donde emana, come un olio scorre sulle membra, ammorbidisce le articolazioni e fortifica le giunture: «Fons vivus, ignis, charitas et spiritalis unctio». Nulla è cambiato nel funzionamento ordinario del nostro mondo intimo, sebbene tutto sia cambiato dal lato dello scopo a cui tende d'ora innanzi la nostra attività, e del vigore col quale noi vi aspiriamo. Tal è l'ufficio dello Spirito Santo, finché la sua azione si esercita mediante le virtù. Egli viene a noi come Dio, ma come «DIO NASCOSTO», secondo che si esprime la S. Scrittura.

     Da ciò proviene l'oscurità della nostra fede. In questa vita, non possiamo avere l'intuizione diretta delle essenze, e, se ce n'è una che superi il nostro intelletto, è veramente l'essenza di Dio, la cui contemplazione ed amore sono il fine stesso di tutto l'ordine soprannaturale. La Rivelazione istruisce il nostro intelletto circa le verità che riguardano questa essenza, affinché, conoscendola, noi possiamo desiderarla; ma la nostra ragione riceve da cieca questa rivelazione, certificata per altro dall'udito, vale a dire dalla testimonianza di Dio che non inganna né s'inganna. Dalla fede procedono la speranza e l'amore soprannaturale, che non sono altro che il nostro cuore applicato abitualmente ad amare il bene divino rivelato dalla fede. Così la stessa carità, tutta ripiena dello Spirito Santo che l'anima, e come inclinata da questo peso, che la trascina con l'onnipotenza dell'amore che Dio ha per sé, si lascia regolare dal conoscimento oscuro della fede. Lo Spirito Santo è come prigioniero delle imperfezioni dell'amore che egli c'ispira. Tanto grande è il rispetto che la Provvidenza ha per la nostra libertà, tanto è palese il suo disegno di lasciarci, almeno nel cammino abituale della nostra vita, il merito della nostra giustificazione!

     Se le virtù teologali si vedono regolate dal modo di intendere, ristretto e limitato, che è proprio dell'uomo, tanto più sarà lo stesso delle virtù morali infuse. Ora la natura ragionevole dell'uomo colloca la perfezione dei suoi costumi in un giusto mezzo, ugualmente lontano dagli estremi per eccesso e per difetto, i quali possono incontrarsi nella materia della sua attività, azioni esterne o passioni interne. L'altezza del fine soprannaturale può rialzare il livello di questo giusto mezzo, ma non potrebbe impedirgli di consistere in un adattamento delle azioni e delle passioni al fine soprannaturale, adattamento che richiede la riduzione degli eccessi possibili di queste azioni e di queste passioni umane alla giusta proporzione che le rende atte a raggiungere il loro scopo. Trovare questo giusto mezzo relativamente allo scopo divino additato dalla Fede, desiderato dalla Speranza, voluto dalla Carità, ecco l'ufficio della Prudenza infusa. Effettuare il giusto mezzo determinato dalla Prudenza infusa nel dominio delle azioni volontarie e delle passioni dell'irascibile e del concupiscibile, tale sarà l'ufficio delle virtù infuse della giustizia, della fortezza, della temperanza. Anche qui lo Spirito Santo infiltra, per così dire, lo splendore della sua azione. Tutto il nostro ordine morale pratico è regolato dalla prudenza, come l'ordine della coscienza e delle intenzioni era regolato dalla fede.

 

      Oscurità e giusto mezzo, ecco dunque i veli umani sotto i quali si nasconde l'azione dello Spirito di Dio! Certamente quest'azione segreta è infinitamente preziosa per noi cui essa ordina al fine soprannaturale, a cui dà abitualmente i mezzi di tendere a questo fine. Ma lo Spirito Santo che s'induce ad abitare in noi, non andrà egli sino alla fine dell'opera sua? Perché, spezzando l'uniformità del regime delle virtù, non penetrerebbe da Padrone nell'anima del giusto suo servitore? Perché, senz'andare contro la fede o contro la prudenza, ma oltrepassandole, il suo Intelletto e il suo Cuore, operando secondo il modo loro proprio, non diventerebbero, almeno qualche volta, il regolatore immediato delle nostre azioni?

     Poiché nel giorno della creazione del mondo non bastò allo Spirito di Dio lasciarsi portare sopra le acque, esplodano dunque anche nella creazione soprannaturale i fiat trionfanti, spuntino i nuovi sette giorni, e i Doni, come un radioso arcobaleno, segnino sopra la fronte del giusto il progresso della nuova opera divina! Veni Creator Spiritus.

 

II.

 

CHE COSA E' LA CARITA' CON I DONI.

 

Ut sit Deus omnia in omnibus. (1 Corinzi 15, 28.)

 

     Lo Spirito Santo, regola intima, immediata e come omogenea della nostra attività soprannaturale, ecco l'ideale che oramai si offre alle aspirazioni del giusto. Ma appena lo ha egli concepito, la sua fede stessa l'obbliga non a sopprimerne, ma a limitarne l'estensione. Se lo stesso intelletto divino diventasse il regolatore prossimo della nostra attività intima, ciò non potrebbe avvenire se non svelandoci l'essere di Dio che è il suo oggetto. Ora è a noi vietato sopra la terra di aspirare a queste chiarezze riservate alla vita futura. Senza voler parlare di ciò che avverrà in cielo, Dio, come luce intellettuale, non potrebbe quaggiù regolare immediatamente il nostro mondo morale: egli interverrà nella nostra vita mediante un influsso motore, e, se a volte l'effetto di questo intervento è l'espressione della sua vita intellettuale, nondimeno produrrà in noi questi effetti di luce sotto la forma estranea di un'attività impulsiva e pur tuttavia oscura, sotto la forma d'un istinto segreto. La fede, regola della carità, resta dunque la luce direttiva degli interventi divini, per quanto siano essi illuminatori (1).

     Ma è possibile questo influsso diretto di Dio sulla nostra attività interiore? E se niente vi si oppone, esiste esso? E se esiste, a quali condizioni si verifica? Altrettante questioni che si presentano. La loro soluzione ci illuminerà sull'ufficio dei Doni nella nostra vita mistica.

 

    1° Sembra a tutta prima che il carattere positivo della morale aristotelica, trasferita da S. Tommaso nell'ordine soprannaturale, debba interdire ogni intervento diretto di un mondo superiore. Che cosa diventerebbe il giusto mezzo nel quale consiste la moralità, se la Prudenza cedesse il suo posto alle mozioni sovrane delle sostanze separate? Non si cadrebbe forse in un mondo immaginario, simile a quello di Platone, tutto quanto sotto l'impero immediato delle Idee e delle Cause esemplari?

     Ma che cosa si deve pensare, se Aristotele, avversario risoluto di Platone su questo argomento, fece egli stesso il passo? se, per spiegare senza dubbio certi uomini che si presentavano a lui come problemi, il tardo discepolo di Socrate, il precettore d'Alessandro, l'emulo di Platone, l'ammiratore di Fidia, non s'attenne ai principi ordinari e intrinseci del carattere umano? se, oltrepassando la ragione, giunse a domandare la spiegazione di questi uomini divini alla Divinità stessa? Nella sua Morale a Nicomaco, Aristotele parla di un modo di essere superiore alla natura umana, di una virtù eroica che rende l'uomo per così dire divino. Egli ripiglia questo pensiero nella Morale a Eudemo, nel capitolo della Fortuna. Vi sono degli uomini a cui tutto riesce senza che la scienza o la prudenza c'entri per nulla. Come spiegare questo fatto? «E' un chiedersi - dice Aristotele - qual è nell'anima il principio del movimento. E’ chiaro che è il principio del movimento del mondo: un dio... Il principio della ragione non è la ragione, ma qualcosa di meglio. Ma che cosa di meglio della ragione se non è il divino? Non è la virtù, la quale è lo strumento della ragione...; non è la stessa ragione, perché gli uomini di cui parlo non ne fanno uso; non è neppure l'entusiasmo. Dunque senza ragione sono essi quello che sono... Sembra che quanto più la ragione è assente, tanto maggiore azione abbia il principio che li guida: così i ciechi hanno più memoria, liberi come sono da ciò che distrae» (Etica Eudemia, VIII, 2, 1248 a-b).

     Così, per Aristotele, una straordinaria fortuna, una virtù eroica, il genio, sono dovuti a influssi speciali e diretti della Divinità, ragione suprema di cui la ragione umana non è che una modesta partecipazione. Con ciò appunto egli supplisce all'umile grado razionale della morale del giusto mezzo; con ciò il suo sistema risponde alle difficoltà che gli avrebbero suscitato, da parte dei platonici, certi caratteri eccezionali, certe personificazioni superiori dell'umanità, venute fuori delle regole comuni. Aveva egli forse provato in sé per il primo le impressioni del Primo Intelletto? e, se ne parlò così divinamente, è forse perché aveva prima sentito i suoi divini impulsi?

    Ora che cosa sono Socrate, Alessandro, Platone, Fidia, Aristotele, sotto l'aspetto del contatto con la Divinità, in confronto del Giusto riformato dalla grazia? Se volete risposte sublimi e che rischiarino come lampi le profondità tenebrose della vostra coscienza tormentata, anziché Socrate, interrogate dunque quel bambino che ha or ora fatto la prima comunione. Se un ideale glorioso vi riempie di entusiasmo, e vivete di un sogno di conquista, lasciate lì il vostro Plutarco e chiedete a quel giovane, dallo sguardo limpido e casto, il segreto delle sue eroiche vittorie. Non interrogate Platone sulla vita d'Oltre Tomba; egli sottolineerà le sue sublimi rivelazioni con un sorriso enigmatico, pieno d'ironia a suo proprio riguardo: ma andate a trovare quella donnicciola, che ha interrotto la sua dura fatica per entrare in chiesa, ed ella saprà dirvi se vi è un Cielo e che cosa vi si fa. Se vi occorrono opere d'arte, non passeranno forse avanti a Fidia quelli che modellano in un'argilla umana la rassomiglianza della faccia stessa di Dio? Se Aristotele ci appare grande per essersi elevato due volte fino alla cognizione del contatto diretto dell'anima con la Divinità, che cosa è ciò in confronto dello stato d'anima ordinario d'un S. Agostino, d'un S. Tommaso?

     Infatti, per la grazia, la Divinità abita nell'anima del giusto. Se vi è un terreno preparato per l'azione diretta della Divinità, è questo certamente! Il giusto è il soggetto naturale della virtù eroica, l'uomo predestinato ai tocchi del genio, l'oggetto indicato dei favori divini. Non reca dunque meraviglia che S. Tommaso, ispirandosi al Filosofo, abbia giudicato possibile che Dio, ragione della nostra ragione, si faccia la regola immediata e l'ispiratore dell'attività soprannaturale.

 

     2° Come si può sapere se di fatto lo Spirito Santo si sostituisce al normale regolatore della nostra vita soprannaturale? Per illuminarci noi non abbiamo che un sol mezzo: la parola di Dio. L'ordine soprannaturale è gratuito in tutti i suoi gradi, e le più alte ragioni di convenienza non valgono una semplice parola detta da Dio.

     Questa parola, noi l'abbiamo nella S. Scrittura. Già abbiamo accertato la fede della Chiesa nell'esistenza dei doni speciali, distinti, superiori alle virtù infuse. La S. Scrittura ci dà il tratto caratteristico di questi doni. Sono soffi, ispirazioni, spiritus. Così sta scritto a proposito del Messia al capitolo undicesimo d'Isaia: Sopra di Lui riposerà lo spirito d'Adonai, lo spirito della Sapienza e dell'Intelletto, lo spirito del Consiglio e della Fortezza, lo spirito della Scienza e della Pietà, e lo spirito del Timore del Signore lo riempirà (2). «Questo linguaggio, che è abituale alla Scrittura, non è forse manifesto - dice S. Tommaso - e non dà forse a intendere che questi sette doni sono in noi per l'ispirazione divina?». Difatti non passa differenza notevole tra questa ispirazione che la Scrittura ci garantisce e l'impulso istintivo verso il bene di quelli di cui parla Aristotele. L'autorità della parola di Dio va incontro alle vedute audaci del Filosofo; e dice: ispirazione divina, là dove Aristotele aveva detto: istinto divino. E come riscontro caratterizzerà lo stato della ragione che corrisponde all'istinto divino con la parola follia, stultitiam, quando Aristotele nel medesimo luogo lo chiamava irrazionale. Donde può derivare un tale accordo? Forse dal fatto che la stessa Divinità che ispirava il profeta Isaia ispirava pure il filosofo di Stagira! Ad ogni modo spettava a S. Tommaso d'Aquino, testimonio della corrispondenza dei due testi, di trarne la dottrina che è come il punto culminante e l'apogeo della sua morale soprannaturale.

 

    3° In quali condizioni si opera questo intervento divino? La nostra attività morale soprannaturale ci appare ormai sotto la dipendenza di due principii regolatori: la ragione, perfezionata dalla fede, e lo Spirito Santo. Questi due principii sono in armonia, poiché la ragione divina è la causa della nostra ragione. Essi operano tuttavia ciascuno secondo il suo modo, ed ecco perché, in presenza dell'operazione divina, la ragione sospende la sua attività. Essa viene sostituita da un principio migliore ch'essa medesima.

     Ma qui si presenta una questione. Lo Spirito Santo abita in noi per la grazia, come la ragione per la natura. Sotto l'aspetto della potenza di agire sul nostro organismo psicologico, - se noi ci atteniamo ai dati che fin qui abbiamo esposto, - sembrerebbe che la ragione abbia il sopravvento sullo Spirito Santo. Difatti abbiamo veduto che la ragione, per l'esercizio degli atti, s'era creata, in tutte le parti dell'organismo psicologico, come degli aiuti permanenti, che le permettono di regolare a volontà, facilmente tutte le potenze e le dànno, per così dire, entrata libera in tutto il nostro mondo interno, cioè le virtù morali. Ora, senza dubbio, la Spirito Santo è onnipotente. E non ha bisogno di disposizioni preesistenti per operare. Egli crea per il fatto che opera. Dal canto suo dunque tutto è perfetto, ma dal canto nostro?

     Qui sembra che S. Tommaso superi definitivamente Aristotele. Questi aveva ricusato di riconoscere una base permanente all'azione speciale del Divino nella natura dell'uomo. Tutto il fondamento della Fortuna, per lui, risiedeva nelle attenzioni particolari e costanti della Divinità. Ma S. Tommaso si trova di fronte ad un uomo già posseduto dalla Divinità, nel quale la Divinità risiede allo stato abituale, del quale la Divinità è come l'anima. Proprio dell'anima è far sorgere, nell'essere ch'essa vivifica, tutti gli organi di cui ha bisogno. Perché dunque la carità non porterebbe con sé perfezioni, abiti, analoghi a quelli che alla ragione rendono così facile l'entrata del nostro mondo morale? Bisognerà forse ricusare al giusto quello che la natura accorda all'uomo? L'ordine soprannaturale sarà meno compiuto dell'ordine naturale? Dio certamente non ha bisogno di questi punti d'appoggio per mettere in azione la mia vita; ma io, io ho bisogno ch’egli li abbia, se devo essere perfetto nell'ordine delle mozioni divine, quanto nell'ordine delle mozioni razionali. Bisogna che le ispirazioni dello Spirito Santo siano in me allo stato d'abito, come i dettami della ragione sono in me allo stato d'abito. Io voglio cedere a Dio che invade l'anima mia, non violentemente e come forzato, ma voglio cedergli come il virtuoso cede alla sua ragione, volontariamente, facilmente, con l'agevolezza che l'abito solo può dare. Voglio poter dire con il profeta: Il Signore m'ha aperto l’orecchio ed io non mi sono rifiutato; non ritorno indietro [Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora ho detto: «Ecco, io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore» (Salmi 39, 7-9)].

 

     S. Tommaso risponde con una parola: Le ispirazioni dello Spirito Santo sono chiamate Doni, non solo perché Dio le causa, ma ancora perché costituiscono perfezioni che rendono l'uomo facilmente influenzabile all'ispirazione divina, analoghe a quelle che lo dispongono a ricevere la mozione della ragione rispetto alle sue azioni ordinarie. Come se dicesse: Se gli interventi diretti dello Spirito Santo nel governo dell’anima nostra fossero altrettanti atti spontanei e come dei decreti proprio motu dello Spirito Santo, non avrebbero più quel carattere permanente, definitivo, che implica la parola dono. I doni di Dio non saranno essi senza pentimento come i doni dell'uomo? Bisogna pertanto che lo Spirito non solo ci sia dato, vale la dire, sia allo stato abituale nell'anima nostra, ma che anche le sue ispirazioni ci siano date e formino uno degli abiti dell'anima nostra. Come ciò? Noi non potremmo essere il principio attivo di queste ispirazioni: non sarebbero più le ispirazioni dello Spirito Santo. Resta che noi ne siamo i principii passivi, vale a dire che i doni ci mettono in modo abituale sotto la loro dipendenza, e che, per mezzo loro, abbiamo come un diritto permanente e come un pegno sul soffio dello Spirito.

      Ammirabile concezione dell'Angelico Dottore! Tutta la dottrina dei doni, per lui, si riassume in queste due parole: Spiritus, dona. Come soffi dello Spirito Santo, i doni richiedono l'autonomia del loro principio. Come doni le ispirazioni dello Spirito Santo hanno un punto d'appoggio abituale nelle anime nostre. Certamente bisogna che una grazia attuale susciti in noi la volontà di far uso del dono. Ma le grazie attuali sono la respirazione dell'anima giusta e che prega. Che Dio ci dia la volontà di usare del dono, nuovo abito dell'anima, e lo Spirito Santo, come chiamato in soccorso, discende. Lo Spirito Santo è a nostro servizio, Utimur Spiritu Sancto, dicono con una parola energica i teologi. In realtà è lo Spirito Santo che si serve di noi con tutta l'indipendenza del suo modo di operare, ma noi, prevenuti dalla grazia, determiniamo l'istante in cui egli s'impadronisce di noi come d'uno strumento. Figuratevi un fanciullo che riceve in uno specchio l'immagine del sole, che quindi può maneggiare a suo piacimento. Egli non possiede la sorgente da cui essa emana, eppure la sorgente è come a suo servizio ed egli se ne serve per far penetrare i raggi dell'astro radioso in luoghi che sfuggivano alla sua azione diretta, pur essendo rischiarati dai raggi più pallidi della luce diffusa. Tale ci appare il figlio di Dio ornato dei doni. Per mezzo loro Iddio irradia liberamente attraverso tutta la sua vita morale e soprannaturale, illuminata prima dalla pacifica luce delle virtù. Che felice sorte è la sua! Et nox illuminatio mea in deliciis meis [et dixi forsitan tenebrae conculcabunt me et nox inluminatio in deliciis meis quia tenebrae non obscurabuntur a te et nox sicut dies inluminabitur sicut tenebrae eius ita et lumen eius (Salmi 138,11-12)]. Passivo di fronte allo Spirito Santo, egli possiede a sua volta lo Spirito Santo e usa dell'influsso del suo ospite, schiavo e libero ad un tempo. Ubi Spiritus Dei, ibi libertas [Dominus autem Spiritus est, ubi autem Spiritus Domini ibi libertas (2 Corinzi 3,17)]; Qui Spiritu aguntur, hi sunt filii Dei [quicumque enim Spiritu Dei aguntur hi filii sunt Dei (Romani 8,14)] Tal è la strana antinomia della quale il dono ci appare la divina soluzione.

 

    Oramai sappiamo che cosa è la Carità con i doni. Non è più quel dolce calore, quel fervore delle virtù che s'insinuava segretamente or ora nel nostro organismo morale, e che prendeva le forme della nostra ragione e del nostro amore umano. Ma è il focolare ardente, che fa risplendere il suo involucro, e che irradia come il sole; è la luce del volto del nostro Dio risplendente nell’irradiamento a sette raggi che è a lui proprio: Sì, è proprio lui...! è lo splendore stesso della tua fisionomia, o Santo Spirito. E questa luce s'arresta sopra di noi. Signatum est super nos lumen vultus tui, Domine [signatum est super nos lumen vultus tui Domine, dedisti laetitiam in corde meo (Salmi 4,7)]. Essa non è più solamente interna; ma è segnata di fuori, signatum est super nos. Non ancora nell'atto di illuminare la nostra fronte, di affascinare il nostro sguardo, come nella visione del Cielo, ma nell'atto di avvolgere il nostro cuore. Il nostro cuore è come un sole i cui raggi, incessantemente posti in moto e rinnovati dall'azione dello Spirito Santo, vengono a rischiarare tutto il nostro mondo interno, verità, amore, speranza, giustizia, passioni, tutto, affinché Dio regni direttamente e a suo modo sopra ogni cosa. Ut sit Deus omnia in omnibus [cum autem subiecta fuerint illi omnia, tunc ipse Filius subiectus erit illi qui sibi subiecit omnia, ut sit Deus omnia in omnibus (1 Corinzi 15,28)] (3).

     Tal è l'ufficio dei doni nella dottrina di S. Tommaso. Donde attinse dunque il Dottore Angelico questo insegnamento sublime quanto originale? Il pittore del Medioevo [sono “troppi” i pittori (alcuni anonimi) che hanno raffigurato S. Tommaso, è arduo indovinare a quale alluda il p. Gardeil] non s'era ingannato: volle rappresentare il santo Dottore, con lo sguardo positivo, calmo, sereno del Peripatetico, perché l'ora della visione non era ancora scoccata, ma dal suo petto sfugge un fascio risplendente, come se la divina carità che gli riempie il cuore non potesse più nascondere il focolare che esso imprigiona: è lo Spirito Santo che, con i doni, fa irruzione in questo divino genio. Deus! ecce Deus! [La locuzione latina Deus, ecce deus, (tradotta letteralmente significa il Dio, ecco il Dio) proviene dall’Eneide (VI,46) di Virgilio; è l'esclamazione della Sibilla Cumana quando si sente invasa dall'influenza profetica del dio Apollo; nell'uso corrente simboleggia l’ispirazione poetica, come dire: ecco l’ispirazione, ecco l’estro poetico].

 

 

 

I.

 

 

I Doni dello Spirito Santo

e

La Vita Soprannaturale.

 

     Anime pie, anime giuste, anime sante, formate alla scuola del Santo Patriarca Domenico, voi tutte aspirate a vivere della vita soprannaturale. Ma che cosa è vivere della vita soprannaturale? Questa vita che è la vostra, in che cosa si distingue dalla vostra vita naturale? Anzitutto si distingue per il fine a cui tendono tutti i vostri pensieri, i vostri affetti e le vostre azioni. La vita naturale ha, per scopo il vostro mantenimento nell'esistenza, la perfezione dovuta alle vostre facoltà, le vostre relazioni di famiglia, d'amicizia, di società. Non già che tutto ciò non possa essere elevato dalla grazia a un fine più alto, ma, per sé, tutto ciò è limitato alla terra e deve perire con voi. Invece la vita soprannaturale ha di mira esclusivamente quello che rimane oltre tomba, Dio, che noi speriamo fermamente di godere un giorno nella visione eterna. Essa ordina anticipatamente tutte le nostre attività vitali a questo scopo definitivo e glorioso. E, siccome questo scopo supera infinitamente tutte le forze della nostra natura, siccome la forza di Dio è assolutamente richiesta per farci tendere a Dio efficacemente, è ben giusto che noi chiamiamo una tale vita soprannaturale. Essa è superiore alla nostra natura per l'elevazione dell'ideale che ci propone; è superiore alla nostra natura per la forza divina che esige, forza che noi non abbiamo alcun mezzo di far discendere in noi e che è un puro dono di Dio.

 

    Per intendere la vita soprannaturale tal quale ci è dato di possederla sopra questa terra, bisogna anzitutto trasportarci con il pensiero nella visione beatifica, dove questa vita soprannaturale tocca il suo apogeo e il suo compimento integrale. Ivi Dio è tutto in noi, non il Dio dei Filosofi, Causa prima, Essere perfetto, ma Dio così com'è in se stesso, così come conosce ed ama se stesso, Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito. Il beato assiste a questo mirabile spettacolo del Padre che genera il Figlio da tutta l'eternità, del Figlio, Verbo del Padre, generato dal suo seno, come uno splendore si sprigiona da un sole ardente, senza abbandonarlo, restando unito a lui, rituffandosi incessantemente in lui per risplendere ancora e sempre, dello Spirito Santo, amore comune del Padre e del Figlio, frutto della cognizione perfetta che la Sorgente che è il Padre ha del Suo splendore che è il Figlio, che il Figlio, riflesso del Padre, ha della Sorgente ingenita della sua bellezza. Il beato vede l'intima essenza della Divinità, vede nella loro origine prima tutte quelle perfezioni delle creature che c'incantano, essere, bontà, verità, spazio, durata, unità, armonia, scienza, cuore, volontà, giustizia e misericordia, Le vede non più sparpagliate, sbriciolate, come le vediamo noi, ciò che ci obbliga a non considerarne simultaneamente che un piccolo fascetto, ma riunite, concentrate, nella semplicità dell'essere divino, non diminuite e come offuscate dalla vita creata, ma nel loro pieno spiegamento, tutte nuove e raggianti della vita infinita nella quale dimorano immerse. Ecco una debole idea di ciò che il beato vede a faccia a faccia, senza tuttavia comprenderne l'immensità, perché è cosa assolutamente superiore alle sue forze. Nulla di ciò che ci tocca, ci seduce, c'incanta, sopra questa terra, nulla di buono e di bello che non si trovi nell'oceano della Divinità, ma infinitamente più grande, infinitamente più bello e più consolante!

     Di fronte a questo spettacolo gli occhi e il cuore sono spalancati, e l'Infinito vi penetra senza ostacolo. Come noi ci lasciamo penetrare senza resistenza dai beni di questo mondo, il sapiente dalla verità, l'artista dall'armonia, l'amico dal pensiero dell'amico, dando loro, per così dire, un asilo permanente in fondo a noi stessi, perché vi abitino e vi rimangano in un modo ben più vero, intimo e profondo di quello che ci offre la coabitazione materiale, così Dio penetra nell'intimo del beato, vi abita, vi rimane. Abitazione spirituale, di cui un pensiero e un amore vivo formano il suolo, il tetto e i muri, la sola abitazione in cui possa dimorare l'Essere incorporeo, lo Spirito puro, il Pensiero e l'Amore sussistente che è Dio. Ecco la vita soprannaturale compiuta, la vita eterna del cielo.

     Per capire ora che cosa è la vita soprannaturale della terra, ci basterà dare a quello che abbiamo sopra descritto un'occhiata retrospettiva. Perché, quello che è la vita eterna nell'ordine delle cose compiute, la medesima cosa è la vita soprannaturale presente, nell'ordine delle cose che non sono ancora pervenute al loro termine, benché vi tendano efficacemente. Mi spiego. E' una medesima realtà che costituisce il fondo della vita del cielo e della vita soprannaturale terrestre, ma lassù la possediamo senza veli e per non perderla mai più, laddove quaggiù la possediamo in un modo velato e possiamo avere la disgrazia di perderla. Ma, ripeto, salvo la differenza tra la fede e la visione, il possesso è altrettanto reale. Dio abita nei nostri cuori tanto realmente quanto nel cuore del beato, perché, veramente, noi l'amiamo, e l'amore che abbiamo attualmente per Dio non cambierà nel nostro ingresso in cielo. La carità non muore, dice S. Paolo.

     Cosicché il giusto, il santo della terra esercita fin d'ora verso Dio il medesimo atto vincitore con il quale in cielo possederà il suo Dio. Dio abita già nel suo amore, e il suo cuore è un vero cielo, quantunque invisibile e sottratto a tutti gli sguardi, compreso il suo. Ecco, nella sua realtà profonda, la vita soprannaturale della terra.

     Ma - per penetrare più addentro nelle energie di questa vita misteriosa - chi dunque ha potuto deporre, anticipatamente, nel cuor dell'uomo vivente in questo mondo, quest'amore celeste? Da noi stessi non potremmo produrre una sola stilla d'amore per Dio com'è in se stesso. Anzitutto, naturalmente noi non conosciamo così Iddio; ma bisogna che ci sia rivelato. Ora come si amerebbe naturalmente quello che non si conosce naturalmente? Ma, anche dopo che ci fu rivelato, come oseremmo noi amarlo? - intendo di un amore d'amicizia, di un amore accettato e ricambiato, di un amore efficace in una parola, non di quel falso e scoraggiante amore che si ha per un essere inaccessibile, amore che non potrebbe essere che una velleità d'amore. Eppure è con siffatto amore contraccambiato ed efficace che i beati amano Dio. Dio si abbassò verso di loro e, ciò che essi non potevano fare, egli diede loro modo di farlo; li rese partecipi di quell'amore per il quale egli ama se stesso. L'atto divino è diventato, per quanto è possibile, l'atto del beato. E, come il Padre e il Figlio si amano per lo Spirito Santo, il beato ama Dio per lo Spirito Santo. Ma, poiché l'amore dei beati per Dio è già in noi allo stato di tendenza efficace, è dunque necessario che anche Dio si abbassasse verso di noi per renderei partecipi dell'atto per il quale egli ama se stesso, per alzare il nostro piccolo amore all'altezza del suo cuore, ed è necessario che lo Spirito Santo, amore consustanziale del Padre e del Figlio, sia in certo modo in fondo al nostro amore per Dio. Perché, ripeto, noi amiamo realmente Iddio ed è solo per lo Spirito Santo che si può amare Iddio.

     Lo Spirito Santo dunque abita in noi in modo particolare, tutta quanta la SS. Trinità vi abita come oggetto verso il quale tende efficacemente la nostra fede e il nostro amore. Lo Spirito Santo aggiunge a questa maniera di abitare in un'anima, già così intima, un modo speciale, risiedendo in fondo al cuore soprannaturalizzato come principio del movimento per il quale questo tende verso la SS. Trinità. Egli è, per così dire, il cuore del nostro cuore. E, come il cuore si palesa nell'uomo per un'inclinazione che lo trascina, per una specie di peso che l'orienta e l'attrae potentemente verso il suo centro, il suo bene, così lo Spirito Santo, peso immanente alla nostra carità, ci orienta, ci attrae e ci trascina verso la SS. Trinità, centro comune delle aspirazioni dei beati del cielo e dei giusti della terra.

      I Doni dello Spirito Santo si collegano appunto all’espansione di questa forza nascosta in fondo al nostro cuore soprannaturalizzato. Sono una delle due maniere, e la più divina, per le quali si esercita l'attività dello Spirito Santo nelle anime dei giusti.

     Ogni forza superiore ha due mezzi per esercitare la sua azione. Anzitutto può suscitare, nell'essere che le è sottomesso, organi permanenti, fissi, che si condivideranno sotto la sua direzione i vari domini di attività che son necessari per raggiungere lo scopo che essa si propone. Così quella forza superiore, che noi chiamiamo un germe, suscita nel corpo vivente tutto un insieme di organi che si dividono le diverse funzioni della vita. In questo caso, la forza iniziale conserva solamente la virtù che unifica e vivifica l'organismo: non interviene direttamente e in ogni istante nei particolari dell'opera sua, ma lascia che ciascun organo agisca secondo la legge che essa gli ha tracciato; sembra che essa si pieghi al modo di operare di ciascuno di essi. Così appunto lo Spirito Santo, risiedente alla sorgente di tutta la nostra attività per mezzo della carità, si crea degli organi fissi della sua operazione nelle virtù infuse, nella prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, e in tutte le piccole virtù che sono come gli organi secondari, i tessuti e le cellule di questi organi soprannaturali. Egli si contenta di unificarli, di vivificarli, lasciando che essi compiano le loro funzioni proprie, secondo i modi di agire speciali analoghi a quelli delle virtù morali umane che portano i medesimi nomi. La direzione dello Spirito non viene diminuita dal potere che egli lascia a questi ministri del suo potere, che hanno da lui la loro destinazione e da lui ricevono incessantemente l'impulso vivificante che fa convergere la loro attività in vista dello scopo che egli ha loro segnato. Noi tutti conosciamo questa forma della vita cristiana che forma il fondo della vita del giusto, che opera, senza rumore e come naturalmente, opere d'ordine tuttavia divino, poiché lo Spirito Santo non cessa d'essere alla loro sorgente profonda.

     Ma se la forza vitale del germe, essenzialmente immersa nella materia alla quale essa comunica la vita, in qualche modo si esaurisce in questa prima attività, non avviene la medesima cosa ad una forza vitale indipendente e necessariamente trascendente come è Dio di fronte alla sua creatura. L'attività divina eccede l'attività di tutti gli organi che le piaccia di creare per attuarsi. Come un capo di Stato, signore assoluto del suo regno, non è tenuto a passare pei suoi subordinati per esercitare la sua volontà su quello o quella parte del suo governo, quantunque li lasci ordinariamente agire per se stessi, così lo Spirito divino, padrone assoluto del governo delle anime nostre in vista del fine soprannaturale, vale la dire del possesso della Trinità. Bisogna dunque aspettarsi, dalla sua parte, degli interventi diretti; sia per accorrere in aiuto agli organi ordinari del suo regno, cioè alle virtù infuse (per esempio, in certi casi eccezionali, come sono le tentazioni gravi, che una virtù ordinaria non può superare); sia semplicemente perché, potendolo, egli lo vuole; sia ancora per promuovere qua e là nella nostra vita opere eccellenti e che sorpassino la comune misura.

    A questi interventi appunto i Doni dello Spirito Santo riservano una base d'operazione. Senza dubbio Iddio avrebbe potuto giustificarci senza di noi. Avrebbe potuto entrare a piacimento nella nostra organizzazione soprannaturale, servendosi di noi come di puri strumenti dell'opera sua. Del resto così egli fa, a volte, e appunto ad interventi di questo genere noi dobbiamo, per esempio, attribuire la conversione d'un S. Paolo e tanti altri miracoli interiori. A questi interventi si riallacciano la profezia, il dono dei miracoli e tutte quelle grazie che sono date agli uomini non in vista della loro propria santificazione, ma in vista della santificazione altrui. Se non che, siccome qui si tratta della nostra santificazione personale, Dio, anche quando operi su di noi direttamente e senza passare per i suoi organi ordinari, non volle che fossimo senza merito né senza cooperazione ,alle sue operazioni spontanee, e perciò questo germe santificante fa sorgere nell’anima nostra i Doni dello Spirito Santo. Per loro mezzo il nostro organismo soprannaturale è come raddoppiato. Lo straordinario, lo spontaneo divino, è in certo modo acclimatato: disposizione ben degna d'un motore divino, per cui lo straordinario è uguale all'ordinario, disposizione sapientissima e, si può dire, veramente prudente per un capo assolutamente libero e che sa di possedere delle riserve infinite di governo.

     I Doni dello Spirito Santo non sono gli stessi interventi dello Spirito Santo nella nostra vita, ma sono disposizioni abituali deposte nell’anima nostra e che la portano a consentire facilmente a queste ispirazioni. Sono, la parola è forse strana ma è esatta, sono, dico, specie di «disponibilità» di fronte a Dio, che l'anima giusta tiene in riserva, dopo che ha soddisfatto al dovere ordinario che s'incarna nel lavoro morale delle virtù infuse. Creazione originale, certo, ed unica! Ma non è anche l'unico il caso d'un essere morale che si trova alle prese con uno scopo che lo eccede assolutamente, anche sotto l'azione dell’Influsso direttore divino, che egli è impotente a conseguire con le sue energie? Non ci vogliono forse da questo capo, accanto alle virtù sempre attive, disposizioni ricettive per tutti quegl'influssi divini che l'attività umana non potrebbe incanalare? non ci vogliono forse disponibilità permanenti di fronte a tutto ciò che Dio vorrà operare in lui?

     E' vero che i Doni dello Spirito Santo sono essi medesimi limitati di numero, poiché se ne contano solamente sette. Ma questo numero non esaurisce le risorse infinite della divina Bontà. Tutte le volte che il numero perfetto di Sette è adoperato nella teologia per designare le opere di Dio, non esprime tanto un limite quanto una pienezza. Vi sono sette sacramenti, vi sono sette virtù tra teologali e morali. Vi sono sette ordini sacri. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Tutte le volte che la pienezza dei tesori divini si effonde sopra la terra, appare il numero sette. Esso era rappresentato, davanti all'Arca dell'Altissimo, cioè di Jahvè, nel candeliere dai sette rami. Diciamo dunque che vi sono sette Doni dello Spirito Santo: il timore, la fortezza, la pietà, il consiglio, la scienza, l'intelletto e la sapienza, ma intendiamo il mistero. I pittori non rappresentano forse lo splendore che si sprigiona dal sole con un numero finito di raggi, e, tra questi, non ne pongono essi in rilievo alcuni, coi quali formano il centro e l'armatura di ciascun fascio luminoso? Così non pretendiamo di rinchiudere l'operare divino nei limiti del nostro potere di riceverlo. Vi sono sette Doni della Spirito Santo; ma i mezzi che Dio ha di metterci in moto in vista della gloria sono infiniti.

     Così lo Spirito Santo, questo grande fascinatore, dal fondo della carità ove risiede, vede spiegarsi nell'anima che gli è sottomessa come una tastiera d'organo ricco di molti registri: qui, attività, cioè, le virtù infuse; là ricettività, cioè, i Doni. Ed eccolo, Orfeo sublime, che si pone all'opera. «Lo Spirito soffia dove vuole» [Spiritus ubi vult spirat et vocem eius audis sed non scis unde veniat et quo vadat sic est omnis qui natus est ex Spiritu (Giovanni 3,8)]. Sotto la sua ispirazione fremono i tasti dell'anima rigenerata, ed è un concerto divino dove s'intrecciano gli energici accordi delle virtù e le vibrazioni inebrianti dei Doni. Tuttavia, di mano in mano che si spiegano le divine armonie, sorgono, salgono e si combinano, in un monumento sublime, le decisioni luminose, le azioni giuste, le risoluzioni virili, i casti sacrifici, le sante apprensioni, i coraggiosi assalti e le pazienze indicibili, i pii affetti, i prudenti consigli, i pianti della scienza, i rapimenti dell'intelletto, finalmente, su in alto, gli entusiasmi della Sapienza. E nel fondo dell'anima dei santi, l'Orfeo divino vibra sempre, mentre la Gerusalemme celeste s'accosta lentamente e maestosamente per incoronarli.

     «O Gerusalemme, città beata, visione di pace, fabbricata nei cieli con pietre vive, gli Angeli ti coronano come un corteo nuziale.

    «Le Pietre tagliate, levigate e cesellate sono messe a pasto dalla mano dell'Artista. Così disposte, eccole per sempre nell'edificio divino.

    «La diletta città, a Dio sacra, piena di armonie e di canti di lode, acclama calorosamente il Dio Trino ed Uno» (4).

 

 

 

II.

 

Il Dono del Timore di Dio.

 

 

S. LODOVICO BERTRANDO

S. VINCENZO FERRERI

S. ROSA DA LIMA.

 

     E' onore del cristianesimo il trasfigurare le passioni umane.

     Ce n'è forse una la cui riabilitazione sia più difficile che la paura? L'amore e l'odio, la speranza e la disperazione, il desiderio e l'avversione, l'ira, l'audacia... tutte queste passioni hanno la loro grandezza. Ma la paura!... Chi oserebbe prenderne le difese? Chi, sopratutto, s'accingerebbe a dare a questo sentimento infame un ufficio in un codice morale che si rispetti e rispetti l'uomo?

     Pare che questa sia un'iniziativa interdetta all'umana filosofia, perché essa teme sempre di non elevarsi abbastanza. A codesti puri moralisti occorre una dottrina di alto disinteresse. Ecco, confessare che l'uomo qualche volta ha paura! Valersi della paura per eccitarsi al bene! Che vergogna! Nascondiamo dunque questa miseria, e perché essa non sconcerti il bell'ordine dei nostri puri precetti, sopprimiamone dalla morale perfino il nome.

    Allo Spirito divino apparteneva di riabilitare la paura. E' vero che il «timore» adottato dallo Spirito non ha nulla di comune col timore mondano. Non è la paura degli uomini, ma è il timore di Dio. Il timore del Signore è il principio della Sapienza, dice la Scrittura [initium sapientiae timor Domini, intellectus bonus omnibus facientibus eum, laudatio eius manet in saeculum (Salmi 110,10); initium sapientiae timor Domini et cum fidelibus in vulva concreatus est et cum electis seminis creditur et cum iustis et fidelibus agnoscitur (Siracide 1,16)]. E il S. Concilio di Trento, confermando la lunga tradizione dei secoli cristiani, dichiara buono e santo perfino il timore dei castighi divini.

     S. Tommaso non si tenne pago di introdurre il timore nella morale naturale riguardandolo come la materia di una virtù, la virtù dei pazienti; non gli bastò che il timore fosse considerato come un motivo legittimo della virtù della penitenza; interprete ardito dell'ardire divino, volle dargli nella Teologia un posto che fosse veramente il suo. Non potendo fare del timore una virtù, a cagione di qualcosa di irragionevole e come di inumano che pur tuttavia conserva, ne fa un dono dello Spirito Santo, vale a dire qualcosa di superiore alla ragione, un'emanazione diretta dell'influsso regolatore di Dio sull'operare umano. Dunque il timore avrà libero l'ingresso nella morale cristiana soprannaturale appunto come dono dello Spirito Santo.

    Ed ecco che, per far eco a questa dottrina si levano uomini che osano dir chiaro che essi hanno paura, che considerano la paura come uno strumento di progresso morale, di santificazione; uomini che fanno della paura il pensiero ispiratore della loro vita, che hanno la religione della paura. Nondimeno questi uomini non sanno tremare davanti agli uomini; il giusto dell'antico poeta, justum et tenacem propositi virum [Iustum et tenacem propositi virum/ non civium ardor prava iubentium,/ non voltus instantis tyranni/ mente quatit solida neque Auster,/ dux inquieti turbidus Hadriae,/ nec fulminantis magna manus Iovis:/ si fractus inlabatur orbis,/ inpavidum ferient ruinae (Orazio, Carm. III, 3, 1-8], non è che un bambino di fronte a questi grandi indipendenti; difatti, con il loro strano modo di procedere, essi giungono a rappresentare i tipi più sublimi della morale umana divinizzata dalla rivelazione di Dio. Sono i Santi più puri, più potenti, più soavi.

 

     Eccone tre, scelti nella famiglia del santo Dottore, del Dottore del Dono del Timore: S. Lodovico Bertrando [Luigi Bertrando, in spagnolo Luis Beltrán (Valencia, 1º Gennaio 1526 Valencia, 9 ottobre 1581), fu un religioso e missionario spagnolo, svolse il suo apostolato tra gli indigeni dell'America centrale e meridionale; è stato proclamato santo da papa Clemente X nel 1671], S. Vincenzo Ferreri [o anche Vincenzo Ferrer, in spagnolo Vicente Ferrer, (Valencia, 23 gennaio 1350Vannes, 5 aprile 1419), religioso spagnolo che si adoperò particolarmente per la composizione dello scisma d'Occidente; è stato proclamato santo da papa Callisto III nel 1455.] e S. Rosa da Lima [Rosa di Santa Maria, al secolo Isabel Flores de Oliva (Lima, 20 aprile 1586Lima, 24 agosto 1617), è stata una religiosa peruviana del terz'ordine domenicano; è stata canonizzata nel 1671 da papa Clemente X].

 

***

San Lodovico Bertrando in un ritratto di Zurbarán

L'artista profondamente pio che meditò il commovente Mattutino della festa di S. Lodovico Bertrando, aveva forse letto l'articolo decimo della questione diciannovesima della Secunda secundae? [“duplex est timor Dei, sicut dictum est, unus quidem filialis, quo quis timet offensam ipsius vel separationem ab ipso; alius autem servilis, quo quis timet poenam. Timor autem filialis necesse est quod crescat crescente caritate, sicut effectus crescit crescente causa, quanto enim aliquis magis diligit aliquem, tanto magis timet eum offendere et ab eo separari. Sed timor servilis, quantum ad servilitatem, totaliter tollitur caritate adveniente, remanet tamen secundum substantiam timor poenae, ut dictum est. Et iste timor diminuitur caritate crescente, maxime quantum ad actum, quia quanto aliquis magis diligit Deum, tanto minus timet poenam. Primo quidem, quia minus attendit ad proprium bonum, cui contrariatur poena. Secundo, quia firmius inhaerens magis confidit de praemio, et per consequens minus timet de poena” (Summa theol., 2-2, q. 19, a. 10, co.)] L'inno comincia con una intraducibile risonanza dei sospiri e delle discipline di cui occupava le sue notti:

Nocturna coeli lumina,

Suspiriorum conscia,

Quae Ludovicus aetheri

Mittebat inter verbera...

[Plagas cruentas dicite,/ Flagella, sulcos, vulnera,/ Quae Sanctus ultro proprium/ Vibrabat in corpusculum./ Fluxit pavimento cruor,/ Cellae madebat ambitus,/ Postquam supina ligneus/ Luxarat ossa lectulus./ Sed tunc flagellis lividum/ Superna lux circumdabat:/ Divaeque binae debilem/ Castis levabant brachiis./ Laus et perenni gloria/ Deo Patri cum Filio/ Et utriusque Spiritu,/ In sempiterna saecula./ Amen]

 

    Le antifone, i responsori, le lezioni cominciano allora una strana armonia a cui s'intrecciano queste parole: tribolazione disciplina, cilicio, digiuno, penitenza, morte... Qua e là fendono la salmodia gridi più vibranti, più acuti: «O Signore, qui brucia, qui taglia, qui non risparmiare, affinché nell'eternità tu perdoni!» [Castigo corpus meum, et in servitutem redigo: Ne forte cum aliis paedicaverim, ipse reprobus efficiar. Domine, hic ure, hic seca, hic non parcas, ut in aeternum parcas. (responsorio del II notturno)].

Il timore raggiunse mai un'espressione più straziante? Eppure, parallelamente a questi gemiti del timore, si svolge il canto della sfida e dell'intrepidezza. «Egli non temeva le popolazioni selvagge la cui moltitudine lo circondava; le pietre, le zagaglie, le frecce non gli facevano paura» [Non timebat milia populi se circumdantis, non saxa, clavas, jacula, zelus evangelizantis (antifona del I notturno)]. Sulle labbra del Santo si pongono le parole dell'Apostolo: «Se piacessi ancora agli uomini, non sarei servo di Cristo» [Si adhuc hominibus placerem, Christi servus non essem . (responsorio della VII lettura, citazione di Galati 1,10: modo enim hominibus suadeo aut Deo aut quaero hominibus placere? Si adhuc hominibus placerem Christi servus non essem)]. Poi, i due canti, quello del timore di Dio e quello del disprezzo del mondo, finiscono con l’armonizzarsi in uno solo, il canto della Carità: con esso la mortificazione si trasfigura. «Concedimi, o Signore, di morire per te, come tu sei morto per me» [Da mihi, Domine, ut ego moriar pro te, sicut tu dignatua es mori pro me. (responsorio dell’VIII lettura)]. E il Mattutino termina con un grido di trionfo, in cui tutta l'asprezza delle onde impetuose della penitenza viene a spirare sulle rive incantevoli della gloria: «Tu, o Signore, hai spezzato il mio cilicio,e m'hai circondato di gioia, affinché la mia gloria a te canti» [Conscidisti saccum meum, et circumdedisti me laetitia: ut cantet tibi gloria mea (responsorio della IX lettura; tutte le citazioni sono tratte dall’ufficio liturgico di S. Lodovico Bertrando, Breviarium juxta ritum Ordinis Praedicatorum)].

 

San Vincenzo Ferreri in un ritratto di Giovanni Bellini

 

     Se S. Lodovico Bertrando figura il dono del timore a servizio della mortificazione personale, S. Vincenzo Ferreri rappresenta il dono del timore operante, e, per così dire, apostolo. A questo predicatore non basta aver paura di Dio, ma vuole che con lui tremi tutta la terra.

    Terribile santo! la sua parola è tutta ordinata al fine di produrre lo spavento. Il volto vendicatore di Cristo veniente sulle nubi del cielo è la sua devozione preferita. Il suo vangelo è il vangelo della fine del mondo. La sua meditazione ne visse anticipatamente tutti i castighi: impallidì dinanzi a tutte le sue giustizie. Egli è terrificante a forza di essere terrificato. Come il viaggiatore che nella notte costeggia le rive della Sicilia vede la sommità delle montagne imporporarsi di un fuoco tetro che riflette i fulgori nascosti dell'Etna, così la fronte di quest'uomo, sollevato dallo Spirito a quell'altezza da cui si scoprono gli orizzonti invisibili della giustizia di Dio, riflette anticipatamente le fiamme vendicatrici dell'inferno. Si libra così in alto sulla cattedra da cui predica, la sua voce ha un accento così penetrato, così terribile, che si esita a crederlo un uomo. La sua voce è la tromba che viene a ridestare i vivi e i morti. E' l'Angelo del giudizio finale.

 

***

S. Rosa da Lima in un ritratto di Claudio Coello

     Con S. Lodovico Bertrando, con S. Vincenzo Ferreri, il dono del timore non è ancor rivelato tutto quanto. Il timore mortificato del primo è la radice dell'albero che scava il suolo con un lavorio oscuro e fecondo: il timore attivo del secondo, è il tronco dalla scorza rugosa, dal succo abbondante; ma in S. Rosa da Lima, il timore è il fiore che spande attorno la lei il suo profumo e sembra un discreto e supremo omaggio all'invisibile bellezza del Creatore.

     Tuttavia non crediate di trovare in S. Rosa da Lima qualcosa che rassomigli alla mollezza o all’affettazione. La nostra piccola suora è una rigida santa. E la sua mortificazione non la cede a quella dei suoi terribili confratelli.

    Ma, sul tronco robusto del timore espiatore, ella solleva in tutto il suo splendore il fiore delicato e tremulo del timore filiale, di quel timore che, secondo S. Tommaso, nulla tanto paventa quanto di non sottomettersi abbastanza a Dio. Come la rosa sbocciata, che invisibili brezze agitano in un raggio di sole sulla cima del suo gambo, così S. Rosa da Lima davanti al suo Signore, nel giardino dei Santi! E come la rosa par che riassuma nei suoi vividi colori e nel suo impareggiabile profumo le più luminose e calde energie del sole, così questa rosa mistica vede espandersi in sé il compendio della luce e del calore che lo Spirito Santo infonde nell'anima dei Santi. E' la purezza insaziabile; è l'umiltà che incessantemente si elabora e si riforbisce; è l'orazione sempre fervente; è, in ogni ordine di virtù, un bisogno di finito, o d'infinito, come si vuole, perché qui è tutt'uno: sono perpetue ascensioni verso la rassomiglianza del Padre Celeste; è una viva sollecitudine di non perdere di vista nessuno dei lineamenti della sua immagine; è una deliziosa inquietudine per riprodurli; è una ricerca delicata di tutte le sfumature dell'ideale soprannaturale; è il timore, in una parola, il timore filiale di Dio, timore senza terrore, timore rassicurato nel suo fondo, perché si sente fatto d'amor di Dio, perché quello che la tormenta è di non fare abbastanza per Dio, e di restar sempre, nonostante i suoi sforzi, ad una distanza infinita dalla divina beltà del volto del Padre che regna nei Cieli.

 

 

III.

 

Il Dono della fortezza.

 

s. CATERINA DE' RICCI

S. GIOVANNI DI GORCUM

S. PIETRO MARTIRE.

 

 

     «Chi troverà una donna forte?» [Mulierem fortem quis inveniet? Procul et de ultimis finibus pretium eius (Proverbi 31,10)]. Invano io cerco la risposta nel libro dei Proverbi, dove incontro questa interrogazione. Vedo bensì una descrizione ideale, di questo tipo di virtù, ma finita questa descrizione, il testo tronca il discorso, il santo libro finisce. Sarebbe dunque un'ironia, oppure una di quelle questioni eternamente irresolute che gli antichi designavano col nome di problemi, - e noi diremmo enigmi?

     No, non è un enigma. O, se è un enigma, è risolto ogni giorno dallo Spirito di Dio. Alla debolezza di Eva, egli oppone la fortezza della Madre dei dolori, in faccia alla storia deplorevole delle incostanze delle donne che non si appoggiano su Dio, sciorina l'epopea delle sante che, nell'ispirazione dello Spirito della fortezza, trovarono il coraggio indomabile degli eroi.

S. Caterina de’ Ricci in un ritratto di Pierre Subleyras

    Tale ci appare S. Caterina de' Ricci [al secolo Alessandra Lucrezia Romola (Firenze, 23 aprile 1522Prato, 2 febbraio 1590), religiosa italiana; fu canonizzata da Benedetto XIV nel 1746; la festa liturgica è stata spostata al giorno 4 febbraio (il 2 infatti è la festa della Presentazione al tempio di Gesù].

    La fortezza ha due atti principali: il sopportare e l'intraprendere. Avviene di rado che questi caratteri siano assolutamente isolati. Tuttavia, di solito, domina uno dei due. Poiché dobbiamo fare una scelta, diremo che il temperamento della nostra santa è piuttosto d'intraprendenza. Lo Spirito di Dio le ispira la scienza, l'arte e il coraggio di operare indomabilmente a suo servizio.

 

Ancora bambina, ella vuole essere domenicana. Bisogna subito che tutti s'affaccendino per ottenere il permesso di suo padre, personaggio ragguardevole di Firenze: sono domenicane di passaggio nella città, è il suo zio, il P. Ricci, è la superiora del convento di Prato, imparentata con le principali famiglie e molto influente in Firenze. Questa ottiene che ella si rechi la passare dieci giorni nel suo monastero. Naturalmente, alla fine dei dieci giorni, ella rifiuta di partire col suo fratello, venuto per cercarla. Accorre suo padre, ma la piccina non vuole seguirlo. E bisogna che intervenga l'autorità della stessa priora. Finalmente parte, ma solo a condizione di ritornare. Suo padre non s'affretta a mantenere la promessa. Allora, supremo e provvidenziale ripiego... cade malata «a morte». Suo padre è desolato. Un giorno che egli piangeva presso di lei, stringendo la sua languida manina: «Babbo mio - disse ella - Nostro Signore mi vuole per sposa, me l'ha detto: lasciami partire e guarirò, vedrai». Il padre promette: subito la bambina guarisce. Questa volta giunge ai suoi fini, il padre la lascia partire. Volle essere domenicana, e lo è.

     Domenicana, volle essere una religiosa perfetta, «fino al collo». «Le religiose erano orgogliose d'avere una santina per compagna; solamente questa santina di undici anni, la volevano a modo loro, savia, amabile, obbediente, regolare secondo l'andazzo comune» (5). Tale non era né la volontà dello Spirito né quella della sua ancella. Le intimità divine la rapivano ai doveri tranquilli. I fenomeni straordinari si moltiplicavano, la comunità turbata era piena di prevenzioni riguardo a queste vie eccentriche; e si giunse al punto di ordinarie di sputare sopra le sue visioni. Così fece ella eroicamente, e queste, in vece di sparire, l'approvarono. Il cambio del cuore con Nostro Signore, le stigmate, ed altre manifestazioni soprannaturali furono la ricompensa della sua obbedienza, e il segno non equivoco dell'ispirazione divina. Siccome era schiava della regola, e d'una nobile e franca familiarità con tutte le sue sorelle, finì con ottenere la ratificazione del suo genere di vita: la sua perseveranza, il suo coraggio, la sua energia soprannaturale, non smentendosi mai, riportarono una vittoria completa. Aveva voluto essere una perfetta domenicana, e lo fu.

     Non bastava. Perfetta, volle che anche le sue consorelle fossero perfette. «Frattanto si conosceva il suo valore, e si metteva in evidenza. Da prima nominata sottopriora, oltrepassò tutte le speranze, a tal segno, che alla prima vacanza fu eletta priora all'unanimità. Allora diede tutta la sua misura. Donna di testa e di cuore, governò, con una spirito di giustizia incorruttibile... Esempio austero e vigile custode della regola, non lasciava impunita alcuna colpa... Non tollerava che le religiose occupassero la loro mente di frivolezze e il loro cuore d'affetti mondani »(6). Nondimeno la sua fermezza era temperata da dolcezza, come conviene a un dono dello Spirito. La natura è violenta, ma la vera fortezza si possiede e sa moderarsi. «Il suo comandare era così materno che si provava un estremo piacere a obbedirle». Si capisce che, sotto quest'alta direzione, il convento di Prato diventi un centro di vita religiosa ideale. Ella aveva voluto che le sue consorelle fossero perfette, e lo furono.

     E ciò non le bastava. Voleva ora che la santità del Convento di Prato irradiasse tutto attorno, sopra il suo Ordine, e sopra quella Firenze diletta di cui ella era l'Angelo protettore. Come S. Caterina da Siena, ella ebbe discepoli: «Il suo Ordine gliene fornì i primi. I Provinciali e i priori la chiamavano loro Madre; religiosi di gran valore erano lietissimi di corrispondere con lei e di seguire i suoi consigli. Tutta quanta la sua famiglia era nelle sue mani... Nell'aristocrazia fiorentina contava una turba di discepoli, anime nobili, capaci delle più eroiche virtù civili e cristiane... I più conducevano nel mondo una vita che non avrebbe fatto disonore al chiostro.» - «Altre anime, più perfette ancora, ricercavano la sua amicizia. Basti citare S. Maria Maddalena de' Pazzi, S. Filippo Neri, S. Carlo Borromeo, S. Pio V, il Savonarola. Ella restò fedele a quest'ultimo, e il convento di Prato diventò l'asilo della sua memoria. Con la sua corrispondenza estesissima, con le visite numerose che riceveva, con l'edificazione che tutti riportavano dalle loro relazioni con Prato, pose il suggella all'opera della sua vita. Aveva voluto che Prato fosse un centro di vita perfetta, e lo fu.

     Così, in mezzo ai maggiori ostacoli, si svolge la forte unità di questa vita. Lo Spirito di Dio le insegnò a volere fortemente quello che voleva egli stesso, ed ella lo volle senza venir meno. Domenicana, Perfetta, Fascinatrice, Centro d'Apostolato, ecco i progressi della sua intraprendenza. Ella rimane un tipo di questo primo aspetto del Dono della Fortezza.

 

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     Dall'Italia, paese dei condottieri eroici, passiamo in Olanda, paese del coraggio paziente, delle persone che domano lentamente con dighe le invasioni del mare, degli antenati di quegli eroi che non è gran tempo attendevano con calma il nemico nelle trincee, e non sapendo tremare, riportavano vittorie incomparabili, semplicemente col non indietreggiare. E' il paese della fortezza, non più della fortezza aggressiva, ma della fortezza che sopporta senza piegare. Lo Spirito divino, abitante nelle anime per la carità, tempera sovente la sua azione secondo le nostre disposizioni naturali. E, come la carità sa soffrire, Charitas patiens est [1 Corinzi 13,4], noi ci troviamo sulla tema d'Olanda, di fronte ad una stirpe di santi dalla carità forte e paziente.

 

 

I martiri di Gorcum in un quadro di Cesare Fracassini

    Giovanni di Gorcum [Giovanni Heer, detto anche Giovanni di Colonia (Colonia, Germania, 1500 circa - Brielle, Paesi Bassi, 9 luglio 1572), fa parte del gruppo dei 19 martiri di Gorcum, canonizzati dal Papa Pio IX il 29 giugno 1867] è da vent'anni parroco di Hoornaer. Tutta l'Olanda è devastata dai Pezzenti [Gheusi del mare, Gueux de mer, mendicanti del mare, pirati olandesi]. La religione cattolica è distrutta in una gran parte del territorio. Nella parrocchia di Gorcum, a due miglia da Hoornaer, i calvinisti hanno fatto prigionieri un gran numero di preti e di religiosi, li hanno rinchiusi nella cittadella, hanno loro fatto subire ignobili insulti. Giovanni di Gorcum resta in mezzo ai suoi parrocchiani: si veste da laico per poter continuare il suo ministero. E giunge a penetrare nella prigione di Gorcum e a portare ai suoi fratelli prigionieri la santa Eucaristia. E si assume l'incarico della Parrocchia devastata. Ma il suo andare e venire lo tradisce. Fatto anch'egli prigioniero, è rinchiuso con i futuri compagni del suo martirio.

     E' impossibile immaginare le torture che inventano i loro carnefici. Spogliati dei loro abiti religiosi, seminudi, vengono trasferiti a Brielle, mortale traversata di venti ore. A Dordrecht sono ricevuti dal popolaccio, che li copre di immondizie e li carica di ingiurie. Li visitano nella loro barca come belve feroci, mediante un prezzo fisso. A Brielle sono obbligati a circondare la tavola del festino, dove i loro carnefici celebrano con un'orgia la loro triste vittoria. Il giorno dopo s'ordina loro di trascinarsi in ginocchio verso un luogo di supplizio e di fare tre volte il giro d'una forca. Essi cantano la Salve Regina credendo venuta la loro ultima ora, ma non è che una derisione. In mezzo ad una turba urlante, sono condotti sulla piazza del mercato ove si rizza un'altra forca. Essi cantano il Te Deum. Nuova parodia: finiranno questa giornata in prigione. Il 7 luglio, sono condotti davanti al tribunale del governatore. Loro s'intima di abiurare la presenza reale di Gesù nell'Eucaristia e il primato della S. Sede. Tre di loro soccombono. Gli altri resistono. Il giorno dopo, uno dei tre spergiuri, un novizio francescano, torna a prendere il suo posto nel santo corteo.

     E' il 9 Luglio 1572, un convento di Agostiniani devastato mostra in mezzo alle sue rovine una vecchia baracca il cui tetto sventrato è sostenuto da travi. I confessori della fede sono schierati in fila di fronte a queste travi. Son nudi. Il guardiano dei Francescani, Nicola Pieck, è gettato a terra per il primo. Gli si passa una corda al collo e viene issato alla trave. Mentre egli si dibatte, si tenta un ultimo sforzo sopra gli altri martiri per farli apostatare. Giovanni prende la parola, e, a nome di tutti, proclama la presenza reale di Nostro Signore nell'Eucaristia e il primato del Papa. Ciononostante due di loro piegarono. Gli altri serrano le file e attendono al loro posto di battaglia. A uno a uno sono issati, con la corda al collo, alle travi del tetto. Giovanni di Gorcum resta uno degli ultimi e il suo coraggio non piega. Egli è giustiziato a sua volta. Dal patibolo pendono diciannove cadaveri. La turba infierisce sopra di essi, li mutila, li squarta, si infilzano sulla punta delle picche i pezzi sanguinolenti; l'orribile corteo percorre Brielle in tutti i sensi. Finalmente, nella piazza del mercato si riuniscono tutti questi brani e si vendono al maggior offerente (7).

     In questo dramma sinistro, tutto è resistenza, tutto è immolazione subita, tutto è pazienza indomabile. Nulla dello slancio dell'assalto. La fortezza si concentra sopra un solo atto: non cedere. Di mano in mano che l'aggressione s'accentua, sale lo spirito di resistenza. Quale spirito ispira ai nostri martiri questi rifiuti energici, queste denegazioni sublimi, queste passività eroiche, se non lo Spirito della Fortezza, più ammirabile forse nel sopportar pazientemente, dove non vi è alcuna gioia umana, anziché negli entusiasmi dell'attività!... Che luce per quelle anime privilegiate che Dio chiama al soffrire!

 

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S. Pietro martire in un ritratto di Pedro Berruguete

      Sul pavimento del capitolo del convento di Bologna, Pietro da Verona [o Pietro Martire, al secolo Pietro Rosini (Verona, ca. 1205 – Seveso, 6 aprile 1252), predicatore e inquisitore, canonizzato da papa Innocenzo IV il 24 marzo 1253] giace disteso. Una voce accusatrice si fa udire. E' imputato di un fatto disonorevole. Il priore gli intima di giustificarsi. In ginocchioni, egli si rifiuta, protestando semplicemente la sua innocenza. Le testimonianze paiono tuttavia convincenti, e fra Pietro, cacciato dal convento di Bologna, è relegato a Jesi nelle Marche. E parte disonorato. Per molto tempo rimane, così, in penitenza, sopportando senza mormorazione la prova divina. Finalmente viene l'ora della verità; la sua innocenza è riconosciuta e proclamata; ritorna al suo convento, con la fronte cinta dell'aureola dei forti che sanno soffrire con pazienza.

     Adesso è l'ora di aggredire. Fra Pietro è inquisitore, cioè incaricato di ricercare e di perseguitare l'eresia. Opera in mezzo ai maggiori pericoli, perché è un errore il credere che tutti i pericoli fossero dalla parte degli eretici. Del resto si sforza di convincerli principalmente con la predicazione. La sua intrepidezza è così grande, i suoi successi così strepitosi, che egli diventa il punto a cui sono diretti tutti gli agguati. «Morrò per mano degli eretici», diceva spesso. E continuava la sua missione senza impallidire. Nel 1252 si forma un complotto per assassinarlo. Fra Pietro viene avvertito, e annunzia ai suoi fratelli di Como che la sua fine è prossima, e dice loro che il suo martirio avrà luogo tra Como e Milano. Poi, dopo un ultimo discorso di addio, parte per Milano, dove il suo dovere lo chiama. Sulla strada l'agguato è preparato. Il santo canta con i suoi compagni le strofe del Victimae paschali laudes [Victimae paschali laudes immolent christiani: una sequenza che tradizionalmente viene cantata nella liturgia pasquale]. Procede innanzi col solo Fra Domenico. In una fitta boscaglia gli assassini si precipitano sopra di lui. Un colpo di roncola gli spacca la testa.

     Egli dice: «O Signore, rimetto nelle tue mani l'anima mia». Poi, raccogliendo tutte le sue forze, con il suo sangue scrive sul suolo queste parole: Credo in Deum.

 

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   Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Ecco veramente il fondo dell’anima dei nostri tre santi: S. Caterina ha fame e sete della giustizia dovuta a Dio, cioè della santità, che costituisce i veri giusti; S. Giovanni ha fame e sete della giustizia che consiste nel compire il proprio dovere, e nell'essergli fedele fino alla morte; S. Pietro martire, che sa adorare la giustizia di Dio che lo colpisce innocente, sa anche assecondare, senza venir meno, i disegni di questa medesima giustizia, quando colpisce l'errore per salvare l'innocenza. Intrepidezza nell'attacco e pazienza per il servizio di Dio, ecco la caratteristica dei nostri tre santi. Adesso sono saziati. In cielo, donde ogni ingiustizia è esclusa, vedono, nella sua sorgente, la Volontà divina che condanna le ingiustizie della terra e approva ogni intenzione giusta. Noi che soffriamo per la giustizia e odiamo l'iniquità, solleviamo gli occhi e facciamoci coraggio. La lotta presente non ha che un tempo. La persecuzione e il martirio hanno un domani. Il regno di Dio, il regno della giustizia, dove i nostri santi ci hanno preceduti, è vicinissimo a noi. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

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IV.

 

Il Dono della Pietà.

 

 

S. AGNESE DI MONTEPULCIANO

S. PIO V

S. RAIMONDO DA PEÑAFORT.

 

 

     La pietà filiale verso Dio è una delle note caratteristiche del cristianesimo. Senza entrare nella questione, più sottile che importante, di sapere se essa ne costituisca da sola l'essenza, dobbiamo riconoscere che il culto della Paternità divina, nella nostra religione, è posto in rilievo in modo incomparabile. Il paganesimo e la filosofia onorarono il Creatore, il Giudice, la Provvidenza; ma noi adoriamo il Padre consustanziale di Nostro Signor Gesù Cristo che, per adozione, è anche nostro Padre, e gli diciamo con tutta verità: Padre nostro che sei nei cieli.

     Se nessuno può dire il nome di Gesù se non nello Spirito Santo [Ebbene, io vi dichiaro: come nessuno che parli sotto l'azione dello Spirito di Dio può dire «Gesù è anàtema», così nessuno può dire «Gesù è Signore» se non sotto l'azione dello Spirito Santo (1 Corinzi 12,3)], come parla l'Apostolo, ciò tanto più si verifica del nome del nostro Padre celeste. Lo Spirito Santo è alla testa di ogni nostra attività soprannaturale, e così dev'essere: come potremmo noi produrre atti riservati a Dio, come l'amore efficace di Dio, per esempio, se Dio, con le sue ispirazioni e con le sue mozioni, non fosse il principio profondo della nostra vita?

     «Fra queste mozioni - dice S. Tommaso - ce n'è una che ci porta a un affetto tutto filiale verso Dio. Di essa parla l'Apostolo quando al capo ottavo dell'Epistola ai Romani dice: Voi avete ricevuto lo spirito dei figli d'adozione che vi fa dire a Dio: Abbà, vale a dire: Padre. La pietà ha appunto l'effetto di renderci capaci di tributare ai nostri genitori il culto che dobbiamo loro. Quando dunque, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, rendiamo a Dio i doveri e il culto che gli dobbiamo come a nostro Padre, noi operiamo sotto l'influsso del Dono della Pietà (8)».

 

      I Santi Domenicani possederono tutti lo spirito dei figli d'adozione, tutti operarono sotto l'influsso del dono della pietà. Se dai dittici del nostro Ordine distacchiamo i nomi di S. Agnese di Montepulciano, di S. Pio V, di S. Raimondo, non è con un'intenzione esclusiva; ma perché ci parve che questi santi manifestino certi aspetti originali dello spirito di pietà filiale.

     Infatti S. Tommaso c'insegna che l'operazione del dono della pietà non è uniforme. In una famiglia, l'amor filiale deve prima andare al padre, unità e fondamento della società domestica; ma per un movimento naturale, si riflette subito sulla madre, e di lì se ne va ad irradiare tutti quelli che, da vicino o da lontano, appartengono alla medesima unità di famiglia. L’amor del padre, l'amor della madre, l'amor della famiglia, ecco le manifestazioni tipiche dell'amor filiale.

     Ora se Dio è il Padre della famiglia cristiana, Maria ne è la Madre, e la Chiesa cattolica ne è la totale espansione. E a noi è sembrato che i tre nomi di S. Agnese, di S. Pio V, di S. Raimondo, simboleggino rispettivamente questi tre aspetti della pietà filiale cattolica.

 

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S. Agnese di Montepulciano raffigurata nell’altare della chiesa domenicana di Friesach

     Noi non siamo mai al nostro posto di figli meglio di quando siamo veramente piccini. Ora Agnese [Agnese Segni di Montepulciano (Gracciano, 1268 circa – Montepulciano, 20 aprile 1317), religiosa italiana appartenente al secondo Ordine domenicano; canonizzata nel 1726 dal papa Benedetto XIII] fu anzitutto una figlia del Padre piccina piccina. Entrò in religione all'età di nove anni!... Non era tuttavia né violenza, né capriccio, né sensibilità, né immaginazione, ma un'inclinazione profonda e soprannaturale, che doveva persistere e sempre crescere nel medesimo senso, segno molto evidente dell'intervento della Spirito di Dio. Non è forse questo Spirito che, fin dall'età di tredici anni, ispirava l'omonima e patrona della nostra santa, la piccola santa martire Agnese? «Ella ha solo il posto per ricevere il colpo della morte - diceva di lei, come intenerito, il grave S. Ambrogio - e già ha di che vincere la morte». [“Fuitne in illo corpuscolo vulneri locus? Et quae non habuit quo ferrum recipere, habuit quo ferrum vinceret”, S. Ambrogio, De Virginibus libri tres, lib. 1, cap. 5]. Vita religiosa o martirio non è forse tutt'uno per lo Spirito che spira dove vuole? Difatti, fin da questo momento, la sua morte al mondo è assoluta, la sua orazione continua, la sua pietà verso il Padre che è nei cieli, tutta confidente e tenerissima.

     Cosa stupenda! Questa bambina è garbata quanto pia. Le facoltà pratiche, ed anche di governo, non le mancano. Come avviene di certi figli allevati alla scuola del loro padre, e che, di buon'ora, manifestano qualità serie che convengono piuttosto all'età matura, così accade di questa piccola ancella del Re Eterno. A quattordici anni le religiose la guardano già come loro piccola madre. Le si affida la procura del suo monastero e la sua amministrazione è segnalata per una saggia intelligenza di tutte le cose. A quindici anni, eccola abbadessa di un convento vicino! Sino alla fine della sua vita ella sarà superiora. Pare che il Signore e Reggitore di ogni casa abbia voluto configurare a somiglianza della sua Paternità questa pia fanciulla, che non aveva altra ambizione che di vivere sotto la sua dipendenza filiale.

     Il tipo assoluto della pietà filiale verso il Padre è Nostro Signor Gesù Cristo. L'unione intima con Gesù Cristo si risolverà sempre in un sentimento più profondo di rispetto e d'amore per il Padre, perché l'unione produce la rassomiglianza. Ma chi dunque fu più di S. Agnese in unione profonda e quasi familiare con Gesù? E' difficile per la lingua umana il ridire, senza tradirle, la delicatezza e l'elevazione di queste unioni soprannaturali. La S. Chiesa, che ha per questo grazia e missione, non esita a fare un epitalamio dell'ufficio che è consacrato alla memoria di S. Agnese:

Magnae dies laetitiae

Venerunt Agni nuptiae

Et Agnes Agnum sequitur,

Sponsoque sponsa jungitur.

[Vox Angelorum concinit:/ Laetante coetu suscipit/ Virgo beata virginem,/ Caelestis Agni comitem./ Signis coruscat variis,/ Miris micat prodigiis,/ Confert salutem languidis,/ Vitamque reddit mortuis... (hymnus ad laudes, dall’ufficio liturgico di S. Agnese da Montepulciano, Breviarium juxta ritum Ordinis Praedicatorum].

     Si evochino dunque i sentimenti di pietà filiale del Figlio di Dio, si rammenti l'incomparabile preghiera al Padre suo conservataci da S. Giovanni (capitolo XVII del suo Vangelo), e, fatte le debite proporzioni, non si tema di porne l'espressione e il pio sentimento sulle labbra della sposa di Cristo.

     S. Tommaso che, secondo la sua abitudine, vede ciascuno dei doni dello Spirito Santo sbocciare in una delle Beatitudini evangeliche, esita, per il dono della pietà, tra la Beatitudine degli affamati della giustizia e quella dei mansueti (9), e finisce col lasciare ai diversi caratteri dei santi la cura di determinare questa scelta. Ma per la beata Agnese non vi è dubbio. E' la mansuetudine che presiede agli atti della sua pietà verso il Padre, mansuetudine verso le sorelle che ella governa, verso i poveri che serve, verso i viandanti che ospita, verso i peccatori che converte. Dio riconobbe la dolcezza della sua ancella circondando la sua morte di fenomeni significativi. «Un dolcissimo profumo» si diffuse attorno a lei. «Tutto, perfino la biancheria inzuppata dei sudori dell'agonia, esalava un odore di incenso di cui la cella era ripiena »(10). Odore d'incenso, profumo dolcissimo, - pietà, dolcezza - ecco tutta S. Agnese.

 

 

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Il papa S. Pio V in un ritratto di El Greco

    All'opposto, il dono della pietà in S. Pio V [nato Antonio (in religione Michele) Ghislieri (Bosco Marengo, 17 gennaio 1504Roma, 1º maggio 1572), fu il 225º papa della Chiesa cattolica e 133º sovrano dello Stato Pontificio (1566 - 1572); canonizzato da Clemente XI il 22 maggio 1712, la sua memoria liturgica è il 30 aprile] si risolve tutto in fame e sete della giustizia. Guerra e culto sono gli aspetti notevoli della sua attività. Lo spirito guerresco nasce in lui dalla pietà; perché la guerra che egli dichiara, è la guerra santa, la guerra contro l'infedele esterno che minaccia di invadere tutto, la guerra contro l'infedele interno che minaccia di corrompere tutto. Lo spirito cultuale nasce in lui da una pietà profonda: è la grande liturgia della Chiesa di cui egli intraprende la riforma; è soprattutto la preghiera pia per eccellenza, la preghiera le cui Ave moltiplicate intrecciano il nome della Madre della grande famiglia cristiana, della Vergine Maria, al nome del Padre che è nei cieli. E' il santo Rosario.

      L'ufficio che gli consacra la Chiesa è tutto pieno di questa unione tra la giustizia che sa ricorrere alla guerra e la pietà che vive della preghiera. Il capitolo dei primi vespri è come il programma: «Dio ti circonderà della Corazza della giustizia e ti porrà sul capo la Mitra d'un onore eterno: mostrerà il tuo splendore a tutto quello che è sotto il cielo, perché ecco il nome che ti darà Dio stesso: La pace della Giustizia e l'Onore della Pietà »(11).

     Al Mattutino, le figure ad un tempo religiose e guerresche dell'Antico Testamento si affollano: è Mosè sul monte, che stende le braccia sopra agli Amaleciti soggiogati, stupenda immagine del santo Papa pregante, con tutte le confraternite del Rosario, nel giorno della battaglia di Lepanto. E' S. Michele che prostra il dragone, immagine dell'angelico pontefice, che prende il nome di Pio solo per combattere l'empio. In mezzo a queste maschie lodi, si ode come uno scontrarsi di strepiti di battaglia: lo zelo della sua fede è uno zelo di guerriero; la sua speranza forte come un'armatura; la sua carità non paventa la moltitudine dei suoi avversari.

     Le Laudi annettono alla pietà del nome che egli scelse il suo governo prudente e riparatore, la sua giustizia nella repressione dei vizi, la costanza, la continenza, l'astinenza, la temperanza, tutte le virtù per cui riportava sopra se stesso le sue più belle vittorie.

     Egli è il Principe dei suoi fratelli, il sostegno del suo gregge, la forza del suo popolo, dice il capitolo di Sesta; il capitolo di Nona, che gli risponde come un'eco, svela il segreto della sua potenza, ed è ch'egli con tutto il suo cuore lodò il suo Salvatore e amò il suo Dio.

     E l'orazione della festa, riassumendo e intrecciando nella sua supplica i due aspetti del grande santo, si esprime così: O Dio che, per schiacciare i nemici della tua Chiesa e per restaurare il tuo divino culto, scegliesti il beato Pio come sommo pontefice; fa’ sì che siamo difesi dalla sua protezione e che attendiamo al tuo servizio, in modo che, dopo aver vinto i nostri nemici, noi godiamo perpetua pace. Amen.

 

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S.Raimondo di Peñafort in un dipinto di Tommaso da Modena

      Il dono della Pietà non poteva manifestarsi nello stesso modo nella santina da Montepulciano e nel papa guerriero del Rosario: «Stella differisce da stella per chiarezza» [“Alia est enim gloria solis, alia gloria lunae, alia gloria stellarum: stella enim ab stella differt in gloria; sic et resurrectio mortuorum. Tamquam stellae sancti diversas mansiones diversae claritatis, tamquam in coelo, sortiuntur in regno”, S. Agostino, In Evangelium Ioannis, tractatus 67, 2]. A sua volta, il vegliardo centenario che vide la sua giovinezza religiosa cominciare verso il suo cinquantesimo anno, il dotto dedicato agli studi solitari, che prese per un istante il governo del suo Ordine solo per rassegnarlo poco dopo, non potrebbe essere pio a modo d'un rigido soldato di Cristo o d'una piccola religiosa. Quello che caratterizza S. Raimondo.[Raimondo di Peñafort (Santa Margarida i els Monjos, 1175 Barcellona, 6 gennaio 1275), religioso spagnolo, canonizzato da papa Clemente VIII nel 1601] è il culto della famiglia cristiana considerata, non più nel suo Capo divino o nella sua Madre benedetta, ma in se stessa, nel suo spirito, nella sua storia, nei suoi gloriosi ricordi.

     Chi non incontrò sul suo cammino uno di quei vecchi sapienti, che mettono tutta la loro anima nell'indagare, nello scoprire, nel classificare, nel pubblicare i documenti che ricordano la vita e le glorie della loro patria, della loro provincia, della loro città, del loro villaggio, della loro famiglia religiosa o terrena? Questo studio religioso delle carte di famiglia non appartiene forse, a suo modo, alla pietà?

     «Cerca con pietà - dice S. Agostino - colui che venera la S. Scrittura e non bistratta quello che non intende ancora »(12).

     Così fu pio S. Raimondo. Ispirato da Dio, per ordine del Papa Gregorio IX, intraprese verso la metà dei suoi giorni la collezione delle Decretali [una decretale è una lettera emessa da un papa contenente disposizioni giuridiche generali], vale a dire di tutti i testi, di tutti gli atti, di tutti i ricordi, di tutte le date memorabili della vita di quella grande famiglia che è la Chiesa cattolica. E i cinque libri delle Decretali sono ancora oggi, con il Decreto di Graziano [in latino Concordia discordantium canonum, più conosciuto come Decretum Gratiani, è il più importante testo di Diritto canonico del XII secolo] che esse compiono, la base della legislazione della Chiesa. Di esse, in gran parte, vive l'ordine ecclesiastico, l'armonia sociale, di cui noi, cattolici del secolo ventesimo [l’edizione originale del presente libro è del 1903, la traduzione italiana è del 1934], godiamo, senza sospettare tutto il faticoso lavoro che ci volle per assicurarcelo. Il nostro vecchio fratello S. Raimondo, nel mezzo dei tempi, ha conservato il passato e assicurato l'avvenire, ispirato come fu da un profondo spirito di pietà verso la famiglia di cui Dio è il Padre e la madre Maria.

Quidquid est alta pietate mirum

Exhibet purus niveusque morum

[…]

Sparsa summorum monimenta Patrum

Colligit mira studiosus arte

Quaeque sunt prisci sacra digna cedro

Dogmata juris.

[Grande Raymundi celebrate nomen,/ Praesules, reges populique terrae,/ Cujus aeternae fuit universis/ Cura salutis./ Quidquid est alta pietate mirum/ Exhibet purus niveusque morum:/ Omne virtutum rutilare cernis/ Lumen in illo./ Sparsa Summorum monimenta Patrum/ Colligit mira studiosus arte:/ Quaequae sunt prisci sacra digna cedro/ Dogmata Juris... (hymnus ad I Vesperas, dall’ufficio liturgico di S. Raimondo, Breviarium juxta ritum Ordinis Praedicatorum].

     S. Tommaso, veramente prodigo per il dono della pietà, trova in esso una terza analogia con le Beatitudini evangeliche. Gli aveva già annessa la beatitudine dei mansueti e quella degli affamati della giustizia. Ora lo riconosce in quella dei misericordiosi (13). E' sotto questo terzo aspetto che ci appare S. Raimondo. Non sembra forse che egli abbia trascorso la miglior parte della sua vita nell'arido studio del Diritto solamente per meritare di divenire, nell'ufficio di Gran Penitenziere, l'organo supremo delle misericordie divine della Chiesa? Infatti la sincera pietà che lo ispira non lo rende meno sollecito della salute dei più umili figli della grande famiglia cristiana che degli interessi del suo governo generale. A questo tratto come non riconoscere una volta di più un dono eccellente dello Spirito di Dio?

 

 

 

V.

 

IL DONO DEL CONSIGLIO

 

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S. ANTONINO.

 

 

     Per la prudenza umana, la vita è una lotta. Gli interessi degli uomini sono opposti: il bene dell’uno è spesso il male dell'altro; quanto più si vede chiaro nelle faccende umane, tanto meglio si scorgono gli ostacoli, gli agguati, i maneggi più o meno francamente confessati che nascondono a danno dei nostri migliori progetti, i controprogetti ispirati, spesso sotto un punto di vista lodevolissimo, dagli interessi altrui.

     Pare dunque che il diplomatico, l'uomo di amministrazione, l'uomo semplicemente accorto e prudente nella condotta del proprio governo personale, debbano consentire a volte al danno altrui, e rassegnarsi al pessimismo in fatto di uomini e di dolori umani.

     Ma così non avviene della Prudenza ispirata da Dio. Lo Spirito Santo assiste al Consiglio imperscrutabile della SS. Trinità dove sono decisi da tutta l'eternità gli interessi dell'umanità e del mondo, e tuttavia il suo nome è Amore. Colui che Isaia chiama il Consigliere per eccellenza, Consiliarius, esordisce nella sua vita pubblica applicando a se stesso queste parole del medesimo profeta: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; mi ha consacrato per dar la buona novella ai poveri, per guarire i cuori spezzati, per annunziare la liberazione degli schiavi »(14).

      Onde S. Tommaso, dopo S. Agostino, ha l'ardire di annettere la beatitudine dei misericordiosi al dono del Consiglio, e di dare, come segno distintivo di quei prudenti, la cui diplomazia è regolata direttamente dallo Spirito Santo, la pietà per gli sventurati (15).

 

S. Antonino in un affresco di Pietro Annigoni, Convento di San Marco, Firenze

     S. Antonino [Antonino Pierozzi (Firenze, 1389 Montughi, 2 maggio 1459), storico, teologo, arcivescovo di Firenze; canonizzato da papa Adriano VI nel 1523] ci appare come la stessa incarnazione di questa prudenza secondo lo Spirito Santo. E' quello che la Chiesa attesta, quando lo riconosce in queste parole di Giobbe, che formano la prima lezione del suo ufficio: «Quando mi recavo alla porta della città, mi si preparava una cattedra sulla piazza. La gioventù si ritirava e i vecchi, alzandosi, restavano in piedi. I grandi cessavano di parlare e si ponevano un dito sulle labbra. I capi tacevano e la loro lingua rimaneva inerte. L'orecchio che ascoltava mi rendeva omaggio e l'occhio che mi vedeva mi era favorevole. Perché avevo liberato il povero che strideva e il pupillo privo di difensore. Benedizioni mandava a me colui, che stava in pericolo di perire, e al cuore della vedova porgevo conforto. Fui occhio al cieco e piede allo zoppo, e padre dei poveri (16)».

     Questa scena, nello stile immaginoso proprio dell'Oriente, non esprime forse l'unione tra la Prudenza che si fa ascoltare e la Misericordia che si fa benedire, caratteristica del dono del Consiglio?

     Ma seguiamo rapidamente queste due manifestazioni di un medesimo Spirito nella vita del nostro santo.

 

     Fu egli mai più prudente, più accorto, più diplomatico di quel giorno in cui, semplice adolescente, picchiava alla porta del convento di Fiesole? Con uno di quegli sguardi chiari, che l'età matura non conosce più, il fanciullo giudicò il mondo, riconobbe la vanità delle seduzioni che lo circondavano nella Città dei Fiori [Firenze]. Volle Dio e Dio solo. E, come quel mercante che, avendo trovata una perla preziosa, vende tutti i suoi beni per comprarla (17), il nostro precoce diplomatico è pronto a dar tutto per essere monaco. Il priore del convento, credendo di rimandare con bel modo questo gracile e meschino giovane, inetto, pensando egli alle osservanze dell'Ordine, gli disse: «Quando saprai a memoria questo grosso volume, ti riceveremo.» Il volume in parola era il Decreto di Graziano, il Codice fondamentale del Diritto ecclesiastico. Nulla di più ingrato per la giovane intelligenza del postulante. Questa offerta entrò all'istante nei suoi santi calcoli. Un anno più tardi, ritorna con il Decreto, domanda di essere interrogato; la sua memoria è imperturbabile, ed è accettato.

 

     Il suo genio, come dottore, data forse da questo primo sforzo intellettuale. «Prima di tutto egli è moralista, dice il suo biografo (18). Se nella sua Somma teologica [Summa theologica o Summa moralis] egli si occupa del dogma, è per attingerne i suoi principii di morale. In quattro prospetti successivi, che formano le quattro parti essenziali della sua opera, egli mostra in primo luogo l'anima umana nella sua nobiltà primitiva, nel suo destino immortale, nei suoi doni, nelle sue potenze. Poi su queste quattro pennellate scintillanti di luce, egli getta l'ombra del peccato: le sue cause, i suoi disordini, le sue vergogne, ed ecco la seconda parte. Proseguendo la sua via, lo segue in tutte le sue ramificazioni, ne mostra la deformità in tutte le condizioni in cui l'uomo può trovarsi, tracciando a ciascuno, con mano sicura, la linea del dovere di fronte a Dio, a se stesso e agli altri, e termina indicando il cammino che solo riconduce l'anima traviata e decaduta alla sua nobiltà primitiva, che è la grazia di Dio, i doni dello Spirito Santo e la pietà verso la S. Vergine».

     «Anche nelle sue Cronache [Chronicon o Summa historialis], che sono uno dei primi saggi di storia universale, S. Antonino resta moralista; quello che segue nella storia dei popoli, quello che vede e mostra a dito, è l'azione sovrana, direttrice e benefica della divina Provvidenza».

 

     Quest'orientamento pratico della sua mente lo destinava alle cariche amministrative. Priore di S. Marco, egli seppe segnare il suo governo con il suggello di una prudenza superiore. Dotato del senso delle realtà, riguardò sempre la scopo soprannaturale come la realtà suprema. Un esempio fra mille. Il suo primo atto di amministrazione fu la ricostruzione del suo convento. «Cosimo de' Medici fu il tesoriere, e S. Antonino l'architetto. Cosimo, abituato allo splendore dei suoi palazzi, ricco, dimostrandolo volentieri, voleva fabbricare al suo santo amico un vasto e comodo monastero. Il Priore fu irremovibile. Fece il piano, diede le misure, e ne sorvegliò l'esecuzione per evitare le sorprese del suo tesoriere.» (19) E il risultato fu quel chiostro così religioso di S. Marco, in cui l'eleganza e la semplicità delle linee gareggiano con una ben intesa regolarità, vantaggi di cui non si dirà mai abbastanza l'importanza. Se le celle sono troppo strette, come giustamente fu detto (20), non dimentichiamo che, per ordine del santo, ciascuna di esse s'arricchì di un affresco dell'Angelico, radiosa apertura sugli orizzonti infiniti del cielo.

 

     Ma dobbiamo affrettarci. S. Antonino diventò Arcivescovo di Firenze. Che cosa s'ha da lodare maggiormente la misura del suo governo abituale o il vigore dei suoi colpi di Stato? Amico dei Medici, sa difendere, contro di essi, da repubblicano integro, i diritti della Costituzione e del popolo, non meno che quelli della Chiesa. Già nella sua cella del convento di S. Marco, Cosimo si recava, di notte, a trattare con lui degli affari della Repubblica. Adesso gli si affidano missioni ufficiali, ed egli le compie con destrezza. «La sua santità non nuoceva alla sua abilità negli affari, e i suoi compagni potevano scrivere alla Signoria che il suo ambasciatore faceva meraviglia e aveva conquistato la stima e la simpatia universale » (21). Onde la posterità non lo conoscerà più che sotto il nome di Antonino il Consigliere, Antoninus Consiliorum.

 

     Postulante, professore, priore di S. Marco, arcivescovo di Firenze, consigliere dei Medici, ambasciatore della Repubblica, S. Antonino resta costantemente uguale a se stesso. Il suo carattere pratico si svolge e grandeggia con una continuazione, con un'unità impeccabile. Non è forse questa l'attività di un'anima consigliata dal consiglio dell'Altissimo? Motio mentis consiliatae ab alio consiliante, dice S. Tommaso (22). Dio muove ciascun essere secondo la sua natura: muove il corpo nello spazio e l'angelo nel tempo; e perché non opererebbe egli secondo il temperamento dei prudenti di questo mondo che s'affidano alla sua direzione (23)? Che meraviglia se l’attività dei santi, sebbene prenda le sue forme dalla prudenza umana, appaia superiore all'incerta diplomazia degli uomini, di tutta la superiorità dei consigli di Dio (24)? Ecco il segreto di S. Antonino: nel suo cuore risiede lo Spirito Santo, è lui che lo consiglia, ed egli potrebbe rispondere ai prudenti di questo mondo come un'altra eroina, anch'ella ispirata in tal modo, quantunque in una vocazione ben diversa: «Voi vi siete conformati al vostro consiglio, e anch'io mi sono conformata al mio» [Dunois et les autres Capitaines, estimèrent ce qui s’était passé la veille de l’Ascension comme une hereuse témérité; ils tinrent conseil, et ils y résolurent de ne pas hasarder l’attaque du fort du pont. “Vous avez été à votre conseil, et moi au mien, lui dit la Pucelle; mais croyez que le conseil de mon Seigneur sera rempli et que le votre périra” (Pierre Jean-Baptiste Chaussard, Jeanne d'Arc. Recueil historique et complet, 2 volumi, Orléans, Chez Darnault-Maurant, 1806, Première Partie, pag. 27)].

     Ora quello che principalmente attinse dal consiglio di Dio è la pietà per gli infelici. Donde ciò proviene?

     Datemi un uomo di una vera prudenza, non di quella prudenza meschina che bada ai piccoli lati delle cose; e fate che questo prudente di grandi vedute vada sino al fondo di se stessa. Egli non tarderà a rendersi conto che una gran moltitudine di cose superano la sua capacità. Cogitationes hominum timidae et incertae providentiae nostrae [cogitationes enim mortalium timidae et incertae providentiae nostrae (Sapienza 9,14)]. Chi non si è trovato a questo punto fa dubitare della sua perspicacia. Quanto più ciò si verifica della prudenza soprannaturale, di quella prudenza che ha per oggetto di sventare, con una santa politica, le astuzie, le invidie, tutta quella diplomazia incessante del male, che tende ad arrestare gli uomini sulla via della Beatitudine eterna?

     Di fronte a un avversario così potente, così perseverante, così scaltro, sarebbe poco un talento straordinario, o anche un genio. Per schermirci da tanti mali, per assicurare a noi, e a quelli di cui c'incombe la cura, il beneficio di un cammino sicuro verso la mèta suprema, non basta un uomo: ci vuole assolutamente Iddio (25).

      Ma come possiamo mettere Iddio nelle nostre vedute? La medesima alta prudenza che ci ha fatto riconoscere la necessità di rivolgerci ai consigli di Dio per governarci soprannaturalmente, ce ne indica il mezzo. Se volete che si perdoni a voi, disse Gesù Cristo, perdonate; se volete essere aiutati da Dio, aiutate i vostri fratelli infelici.

      Con questa bella dottrina, posta in luce da S. Agostino, si opera la transizione dal dono del Consiglio alla Beatitudine della Misericordia. Certamente l'obbligo di essere misericordiosi nel suo fondo resta un dovere di carità. Ma, sotto un altro aspetto, sotto l'aspetto di una prudenza compiuta perché divina, essa appare come dettata dalla sollecitudine nobile, pura, ben intesa, degli interessi che ci sono affidati. Et ideo specialiter dono Consilii respondet beatitudo Misericordiae non sicut elicienti, sed sicut dirigenti (26). In Dio la mente e il cuore non sono forzatamente opposti. Amare gli infelici è l'ispirazione di un cuore animato dalla carità, ed è anche miglior politica. Perché la felicità dei misericordiosi è, dice Nostra Signore, che essi otterranno misericordia. Dice S. Agostino: «Come vede giusto colui che, desiderando di essere aiutato da Dio, aiuta egli stesso gli altri meno potenti di lui!» (27).

     Che differenza tra il pessimismo, senza cuore, del politico e quella prudenza che, senza perdere il suo carattere, si risolve nel più largo e nel più cordiale sentimento! Che distanza tra la benevolenza indulgente e molle del diplomatico invecchiato e quella compassione attiva ispirata dal Consiglio dell'Altissimo! E' tutta la distanza che corre dall'uomo a Dio. Ed è tutta la differenza tra i Medici e Antonino!

 

    Non lontano dalla Signoria dagli schiaccianti baluardi, dove penetrano salo i grandi di questo mondo, il Senato, i Cinquecento, il palazzo dell'Arcivescovo, da lui stesso spogliato del suo lusso, è aperto a tutti gli infelici. Un vescovo, vestito di un abito grossolano come quello dei poveri, li accoglie. Sul letto «una coperta così stretta, così miserabile che un gentiluomo n'ebbe pietà e gliene diede un'altra più bella e più calda »(28). Ed egli la vendette per i suoi poveri. Ricomprata e di nuovo offerta al santo, la rivendette per ben tre volte. «Spesso più di un alto personaggio dovette aspettare che il sant'uomo avesse consolato semplici mendicanti »(29). In grazia di questa facilità di accesso, un uomo, di cui egli aveva represso gli eccessi, tentò un giorno di assassinarlo nella sua cella; ma il pugnale fortunatamente deviò (30). Diede tutto quello che aveva, e la sua carità, superando il suo secolo, gli ispirò di fondare una opera per soccorrere i poveri vergognosi (31). In miseros misericors, plus quam mitis in humiles (32): compassione e dolcezza, tali sono le due qualità che distinguono il santo arcivescovo nei suoi rapporti con i miserabili, e tal è in lui il termine a cui fa capo l'intelligenza meglio dotata dal lato pratico dello spirito e delle qualità diplomatiche.

     Esempio prezioso per noi. Abbiamo tutti un piccolo governo esterno da amministrare; e consiste per lo meno nelle nostre relazioni con quelli che ci avvicinano, nella cura di certi interessi, nella direzione di certe persone. Lo spirito pratico ha necessariamente una parte nella nostra vita. Se vogliamo essere pratici sino in fondo, dobbiamo essere pratici soprannaturalmente. E allora, come S. Antonino, dobbiamo ottenere da Dio che ci aiuti, perdonando ai nostri fratelli in una comune miseria, aiutandoli con i nostri mezzi quando possiamo (33).

     Se così facciamo, Dio ci ispirerà il suo consiglio; perché egli si fa una legge di aiutare quelli che avranno soccorso gli infelici. La nostra vita si svolgerà al di sopra delle preoccupazioni meschine, dei sentimenti poco cristiani, verso i quali degenerano il corso della vita quotidiana, l'urto fatale delle personalità, l'opposizione degli interessi e delle vedute anche più riflessive e a volte più soprannaturali. Noi sorvoleremo. Gli angeli, dice S. Tommaso, consultano Dio incessantemente. Questo semplice sguardo alla volontà divina ogni volta che stanno per agire e durante la loro stessa azione, è la loro vita (34). Ciò può essere anche la nostra. S. Antonino, col suo esempio, ci insegna che anche noi possiamo dare alla nostra vita l'unità, la prudenza, la sapienza soprannaturale delle vedute, purché non separiamo i due atti del dono del consiglio, e, accettando la condotta di Dio per la nostra utilità, noi adempiamo la condizione che essa ci suggerisce, cioè: una compassione vera, soprannaturale, effettiva per i nostri compagni di via, condannati alle nostre medesime tristezze, alle nostre medesime fatiche, durante questo grande viaggio che ci conduce all'eternità.

 

 

 

VI.

 

Il Dono della Scienza.

 

 

 

S. DOMENICO

SAN GIACINTO

 

     Il dono dell'apostolo non è il dono del dottore.

     Il dottore studia e insegna una scienza impersonale. Il suo scopo è la verità per la verità. Egli ricerca nella loro più alta sorgente la ragione d'essere delle cose; e se, sopra queste cime, incontra Dio, è perché Dio è la causa delle cause, la ragione ultima della grazia e della natura. Lo Spirito Santo, diventando per i doni la regola immediata dell'intelletto del dottore, non cambia quello che è nella natura delle cose. Mediante il dono della Sapienza egli aumenta la portata della ragione; illumina la fede; dà modi di compiere il loro ufficio sublime, con una sicurezza e un'altezza, partecipate direttamente dall'Intelletto divino. A questo dono appunto S. Tommaso dovrà quel giudizio, divinamente retto e sagace, che l’accompagna da un capo all'altro dell'opera sua, e finisce col far irradiare, sopra il complesso e sopra i particolari di tutte le verità, naturali o soprannaturali, la prima Verità, Dio, la Trinità.

     La scienza dell'apostolo invece non potrebbe astrarre dalle anime che essa è destinata a convertire. Non sono sempre le verità più alte che vanno più diritto al fine. E che m'importa la vostra metafisica e la ricerca dell'ultima parola delle cose, se non vi comprendo? Che cosa avete ottenuto, se la provocante e inopportuna evocazione di una verità troppo crudamente predicata esaspera la mia debolezza? Le anime a cui si rivolge l'apostolo sono ingolfate nella vita pratica, nei suoi errori intellettuali e morali. Non sono abituate a giudicare delle cose per le ragioni superiori. Bisogna prenderle dove si trovano. Se volete farle salire a Dio, abbiate anzitutto un'esatta cognizione di ciò che le preoccupa, dei mali, degli errori in cui si dibattono. Non dovete più guardare in se stessa la verità divina, quando siete chiamati al ministero dell'apostolato; dovete conoscerla nelle sue attinenze con le creature; dovete appigliarvi alle ragioni che, di solito, convincono le anime a cui vi rivolgete, quantunque esse non siano le più profonde. S. Ambrogio dice (35): «Guarda attentamente come Cristo sale con gli apostoli e come discende verso le turbe. Come potrebbe la turba veder Cristo, se egli non discendesse? Essa non segue sulle vette, non sale sulle cime». Ora il dono dello Spirito Santo che comunica alle anime giuste questo senso divino delle cose umane, dei motivi e delle ragioni tratte dalle creature, punto di appoggio necessario all'apostolo, secondo S. Tommaso, è il dono della Scienza. Esso differisce dal dono della Sapienza in questo che, invece di farci giudicare delle cose dal punto di vista di Dio, preso in tutta la sua inaccessibile profondità, ci presenta la luce da questo medesimo punto di vista, riflessa nelle creature, filtrata, per così dire, e adattata all'uso di tutte le anime di buona volontà (36).

S. Domenico adora il Crocifisso, affresco del Beato Angelico

     L'apostolico S. Domenico [Domenico di Guzmán, Domingo o Domínico in spagnolo (Calaroga-Caleruega, 1170 Bologna, 6 agosto 1221), fondatore dell' Ordine dei Frati Predicatori; è stato proclamato santo dal papa Gregorio IX nel 1234] era destinato a rappresentare in modo speciale questo dono degli Apostoli. Sia che noi consideriamo la sua vocazione, i libri da cui attinse la sua scienza, o lo strumento del suo apostolato, il suo ministero e tutta la sua vita ci appaiono segnati dall'impronta del dono della Scienza.

 

      La sua vocazione si lascia già scorgere in questo lontano episodio della sua vita di studente. Una carestia devastava Palencia. Domenico vendette i suoi libri, che erano il suo tesoro, dicendo: «Come potrei studiare sopra pelli morte, mentre tanti muoiono di fame?». Se un giorno un flagello più terribile, il flagello dell’errore che avvelena le anime, si rivela ad un cuore così disposto da Dio, tutta la scienza che acquistò nei vent'anni della sua silenziosa preparazione si adatterà come da se stessa a salvarle. Vedetelo in quella notte in cui si rivela a lui la chiamata divina, in quella discussione con il suo ospite di Tolosa che egli si sforza di convertire. Il medesimo Spirito che gli traeva dal cuore compassionevole il grido della misericordia per gli affamati, lo anima adesso a «dare la conoscenza della salvezza al suo popolo» [per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza/ nella remissione dei suoi peccati (Luca 1,77)]. Conversando con lui, egli cerca ardentemente quali ragioni gli sono accessibili; s'informa del suo stato intellettuale e morale; vorrebbe scoprire l'idea comune, la verità ammessa da una parte e dall'altra, raggio di Dio conservato in una mente sviata, sulla quale egli s'appoggerà per risalire alla luce. In questo momento venderebbe senz'altro, come pelli morte, tutta la scienza acquistata con il lavoro e con la meditazione di vent'anni, per trovare la parola che convincesse, la parola decisiva che liberasse e saziasse quest'anima.

 

     Tuttavia la scienza non si potrebbe alimentare senza libri. Vi è un modo di intendere lo studio che non è sterile, e vi sono libri che si prestano maggiormente alle ispirazioni del dono della Scienza. Quali erano dunque i libri di S. Domenico? I suoi storici ne nominano tre.

     Sono anzitutto le Epistole di S. Paolo, dell'apostolo per eccellenza. Ora non è questo uno dei libri in cui il dono della Scienza splende maggiormente? Dove si può trovare una conoscenza più profonda, un sentimento più vissuto, delle miserie dell'uomo senza Dio e delle cause che gli impediscono di risalire a Dio? Se qualche volta l'Apostolo «parla della sapienza per i perfetti» [Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla (1 Corinzi 2,6)], quanto più sovente «attenua la sua voce», per timore di spaventare i piccoli? E quali slanci superbi quando, avendo cura delle anime di cui, nella compassione del suo cuore, ha preso sopra di sé tutte le infermità, si eleva, con esse, a Dio, attingendo dalla stessa povertà di cui soffrono le creature la ragione della loro liberazione! Quante volte S. Domenico dovette rileggere queste parole: «Ho riguardato tutte le cose come spazzatura, per guadagnare Cristo!»[(Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo (Filippesi 3,8)]. Con quale accento non doveva ripetere il grido del suo maestro preferito: «Sono certo che né la vita, né la morte... né le cose presenti, né le future, né la forza, né la grandezza, né alcuna creatura potrà separarmi dall'amore di Dio che è in Cristo!» [Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore (Romani 8,38-39)]. Che luce sopra la loro vita, per le anime che ascoltavano una parola così profondamente compenetrata della vanità delle cose che le trattenevano nei vizi della carne o negli errori della mente!

 

     Il suo secondo libro era il Vangelo di S. Matteo, vale a dire il Vangelo dell'Umanità di Nostro Signore, quello in cui il Salvatore discese più alla nostra portata. Egli ne predicava la divina pietà, le guarigioni senza numero, le misericordie immense. «Ti legherai gli insegnamenti della legge alla mano come per memoria e li avrai pendenti dinanzi agli occhi» [Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi (Deuteronomio 6,8)]. E' questo un precetto del Deuteronomio che S. Tommaso annette al dono della Scienza (37). Così faceva, alla lettera, S. Domenico sulla strada, per la quale camminava da solo, con il suo S. Matteo in mano; i suoi compagni lo vedevano fare gesti frequenti, come se volesse allontanare un ostacolo che lo distogliesse dalle sue meditazioni, «e attribuivano a questa meditazione familiare dei sacri testi l'intelligenza meravigliosa che n'aveva acquistata».

 

     Il terzo libro di S. Domenico era un libro singolare e che non somigliava agli altri due. Un giorno che gli si domandava donde avesse imparato tutto quello che sapeva: «Figlio mio - rispose - io non ho altro libro che quello della divina carità». Ad essa infatti bisogna risalire per trovare il segreto di una divina scienza del cuore, come quella di cui tutta la sua vita è improntata. Per acquistare questo accento, bisogna rivivere la nostra scienza nel seno stesso di quell’aspirazione potente verso Dio e verso le anime in Dio, che lo Spirito Santo; che ci è donato con essa, diffonde in noi; bisogna pervadere le nostre idee e la nostra parola di questo bisogno del bene divino, deposto in fondo al cuore di tutti i cristiani; bisogna sentire e vivere questo bisogno per sé e per quelli ai quali si deve parlare. Allora è lo Spirito Santo stesso, nascosto in questa aspirazione animata dal suo soffio, che parla nell' Apostolo. E tale fu il segreto della scienza del nostro beato Padre Domenico.

 

     Il suggello del dono della Scienza si rinviene ancora nel grande strumento dell'apostolato di S. Domenico: il Rosario. Ciò che fa del Rosario una leva così potente, è il suo punto d'appoggio, scelto con una meravigliosa conoscenza dell'organizzazione della nostra natura umana. Il Rosario viene a prenderci dove noi ci dibattiamo, nelle gioie mondane, a volte pericolose, nelle tristezze spesso irragionevoli, qualche volta opprimenti, quasi sempre mal sopportate; nelle speranze terrene d'ogni natura. La gioia, la tristezza, la speranza, tali sono veramente le tre rive sulle quali l'anima nostra va a sbattere alternativamente. Domenico lo capì, e in questi tre sentimenti, con un'ammirabile giustezza di sguardo, vide racchiusa tutta la vita umana. Allora, dolcemente, sollevò questa povera vita verso gioie, tristezze, speranze migliori; egli non ci schiaccia con lo splendore del Sinai o del Tabor. Ci attrae con lo spettacolo di gioie santamente intese, di tristezze divinamente sopportate, di speranze vere. Senza negare i turbamenti dell'anima, li calma, li trasforma, li solleva a poco a poco. E le preghiere soavi del Padre Nostro e dell'Ave Maria intanto si elevano come una musica d'amore, che ad ogni ripresa accentuasse la sua insistenza. Che scienza delle cose divine, del cuore umano e del segreto del loro adattamento ci volle per comporre il Rosario! Chi dunque seppe ai bisogni più umani proporzionare i rimedi più divini, e riunire gli uni agli altri, con il vincolo più efficace è più consolante, la preghiera, e quale preghiera! Chi, se non il discepolo ispirato di Colui che, essendo Dio e avendo creato l'uomo, sa ad un tempo tutto quello che Dio può essere per l'uomo e qual bisogno l'uomo ha di Dio?

     Cosicché, in tutta la vita del nostro beato Padre, noi troviamo «quel modo di capire e di sperimentare le creature, il quale fa sì che noi le disprezziamo nelle loro seduzioni, e le amiamo con moderazione ordinandole a Dio»(38), caratteristica del dono della Scienza. Ma un segno più evidente, più definitivo, se così posso dire, di quest'appropriazione, ci è dato da un altro dono del nostro santo: il dono delle lacrime.

 

     S. Tommaso annette al dono della Scienza la beatitudine delle lacrime: Beati quelli che piangono perché saranno consolati. La ragione che porta è notevole. La scienza differisce dalla sapienza in questo che essa, per giudicare delle cose, ricorre a ragioni umanamente accessibili, mentre la sapienza risale fino alle ragioni ultime delle cose. Ora, quando si vedono le ragioni ultime delle cose, che in realtà sono la volontà, la provvidenza, la sapienza, la bontà di Dio, ne risulta per l'anima un effetto di calma, di serenità, di pacificazione. Perciò la beatitudine dei pacifici sarà annessa al dono della Sapienza. Ma, quando si prende la scienza delle cose create per punto di partenza, sebbene la loro cognizione riveli un irradiamento che viene da Dio, pure le loro imperfezioni sono così numerose, e il male ha così spesso il sopravvento sul bene, che invincibilmente si mira con lacrime la triste situazione in cui ci troviamo e in cui si agitano i nostri compagni di viaggio. La scienza umana è madre di tutte le tristezze. Quanto più profonda è questa scienza, tanto più abbondanti sono le lacrime che fa versare: perché è la scienza delle nostre miserie (39). L'Ecclesiaste [o Qoelet, l’autore dell’omonimo libro dell’Antico Testamento] piangeva sopra la vita umana che egli aveva conosciuta profondamente. L'Apostolo ispirato dal dono di Dio, piange a sua volta sentendo in quali miserie si trovino le anime che vuole salvare.

     Ora S. Domenico piangeva spesso. Uno dei testimoni nel processo della sua canonizzazione dice: «Egli aveva una carità così grande per le anime, che si estendeva non solo a tutti i fedeli, ma anche agli infedeli e a quelli stessi che giacciono nei tormenti dell'inferno, e versava per loro abbondanti lacrime». [“Il avait une charité si grande pour les âmes - dit un des témoins dans le procès de sa canonisation - qu'elle s'étendait non-seulement à tous les fidèles, mais aux infidèles, et à ceux-là mêmes qui sont dans les douleurs de l'enfer, et il versait pour eux beaucoup de larmes (Actes de Bologne, déposition de frère Ventura, n. 9)”; citato in: Henri-Dominique Lacordaire, Vie de Saint Dominique, Paris, Librairie Poussielgue Frères, 18717, pag. 234].

Spesso piangeva sul pulpito, «e generalmente era pieno di quella malinconia soprannaturale che viene dal sentimento profondo delle cose invisibili. Quando scorgeva da lontano i tetti fitti di una città o di un borgo, il pensiero delle miserie degli uomini e dei loro peccati lo sprofondava in una riflessione triste, il cui contraccolpo gli appariva presto sul volto »(40). ­ «Offriva il santo sacrificio con una grande abbondanza di lacrime... Quando il corso delle cerimonie gli annunziava Colui che, fin dai suoi più teneri anni, aveva amato di preferenza, lo si scorgeva dall'emozione di tutto il suo essere; una lacrima non aspettava l'altra sul suo volto raggiante »(41).

     Noi potremmo moltiplicare questi tratti. La fisionomia di S. Domenico deve a questo dono speciale delle lacrime, che è l'effetto del dono della Scienza, il suo carattere particolarmente tenero. Questo santo è un sapiente che piange. Noi conoscevamo le lacrime del pentimento e le lacrime dell'amore; qui abbiamo le lacrime d'un uomo, il quale in grazia di un dono intellettuale eminente, essendo profondamente penetrato nella scienza vera del mondo, degli uomini e di Dio, allo spettacolo di questa miseria e di questa bontà, passa gettando sul mondo uno sguardo in cui la tenerezza gareggia con la serenità, e la tristezza della terra con le consolazioni del cielo.

     Così lo rappresentano i marmi della sua tomba, le immagini tradizionali, il pennello del Beato Angelico. Ma ai suoi figli spetta di essere le copie viventi dell'ineffabile espressione del beato patriarca.

 

S. Giacinto in un ritratto di Ludovico Carracci

     Tal fu specialmente quel discepolo preferito, il grande apostolo della Polonia, S. Giacinto [San Giacinto Odrovaz, in polacco Jacek (Kamień Śląski, 1185 Cracovia, 15 agosto 1257), religioso polacco; è stato proclamato santo da papa Clemente VIII nel 1594]! L'aveva rivestito di sua mano. dell'abito dell'Ordine. In S. Giacinto, noi ritroviamo il medesimo amore della scienza sacra, il medesimo culto della SS. Vergine, il medesimo zelo per la salvezza delle anime, il medesimo sguardo sopra gli uomini, triste e consolato, triste per la compassione che prova alla vista delle loro miserie, consolato per la scienza delle divine misericordie. Qualcosa del Padre passò nell'anima del figlio insieme con l'abito di cui l'aveva rivestito. Pare che la Madre del Salvatore, la Vergine diletta di S. Domenico abbia voluto consacrare questa filiazione ricevendo S. Giacinto in cielo il giorno stesso in cui la Chiesa celebra il Suo proprio ingresso in cielo e la sua gloriosa Assunzione. 

     Ma non solo i santi canonizzati, anche i semplici fedeli invita S. Domenico a riprodurre i caratteri della sua santità. Qualunque sia la parte che la nostra vita dà alla scienza, quando pure non avessimo altro patrimonio che il catechismo e l'esperienza degli uomini e delle cose che porta con sé la vita, ricordiamoci che una tale scienza può diventare lo strumento dello Spirito Santo. Vi è in noi una corrente intima, una tendenza profonda che, uscita da Dio, ci riconduce a Dio. Rendiamoci consci di questo movimento che è l’anima della nostra vita, e domandiamo a Dio, che abita in noi, che lo volga in cognizione ogni giorno più profonda di quello che siamo noi e di quello che è Dio. Era la preghiera di S. Agostino: «Signore, che io conosca me e conosca te: conosca me per odiarmi, e conosca te per amarti!» [Citazione a memoria dell’inizio di una preghiera attribuita a S. Agostino, ma probabilmente scritta da altri componendo un florilegio di frasi agostiniane: Domine Jesu, noverim me, noverim te,/ Nec aliquid cupiam nisi te./ Oderim me et amem te./ Omnia agam propter te...].

     Ecco la vera scienza, la scienza completa, la scienza dei santi. Essa non è senza tristezza per la natura. Ma la santa figura del nostro beato Padre ci dice che essa ha pure le sue consolazioni; e ci appare come la conferma vivente della sentenza del Salvatore:

     «Beati quelli che piangono, perché saranno consolati».

 

 

VII.

 

Il Dono dell'Intelletto.

 

S. CATERINA DA SIENA.

 

S. Caterina da Siena in un ritratto di Giovanni di Paolo

     Il B. Raimondo da Capua racconta che Nostro Signore apparve un giorno a Santa Caterina da Siena [nata Caterina Benincasa (Siena, 25 marzo 1347 Roma, 29 aprile 1380), appartenente al Terzo Ordine delle Domenicane; canonizzata da papa Pio II nel 1461, nel 1970 è stata dichiarata Dottore della Chiesa da papa Paolo VI; è patrona d'Italia e compatrona d'Europa] mentre faceva orazione, e le disse: «Sai tu, figlia mia, chi sei tu e chi sono io? Se sai queste due cose, sarai felice: tu sei quella che non sei, ed io sono Colui che sono »(42).

     Questo tratto ci dà, crediamo noi, la caratteristica del dono che lo Spirito Santo fece alla nostra santa sorella. Questo dono è quello dell'Intelletto.

     Vi sono quattro doni intellettuali: la Scienza, la Sapienza, il Consiglio, l'Intelletto. I primi prendono in noi la forma del lavoro della mente umana, del ragionamento; ma il dono dell'Intelletto si presenta come una semplice intuizione, come una veduta della mente che passa attraverso le apparenze; sotto la lettera, sotto i simboli, penetra il senso nascosto e, da ogni cosa, fa scaturire il pensiero latente (43).

    «L'anima dunque lasciando il ragionamento - scrive Bossuet - si serve di una dolce contemplazione che la mantiene pacifica, attenta e suscettibile delle operazioni e delle impressioni divine, che lo Spirito Santo le comunica: essa fa poco e riceve molto: il suo lavoro è dolce e nondimeno più fruttuoso». Qual è questo lavoro? - «Una semplice veduta, sguardo o attenzione amorosa in sé verso qualche oggetto divino»(44).

    Ecco senza dubbio perché Dio scelse, nel nostro Ordine, una santa e non un santo, per personificare in un modo più speciale (del resto per nulla esclusivo) il dono dell'Intelletto. Agli uomini, nei quali il rigore del ragionamento è la nota intellettuale dominante, si addicono i doni che si annettono alla ragione: a S. Domenico la Scienza, a S. Tommaso la Sapienza, a S. Antonino il Consiglio. A una donna, natura più intuitiva, più spontanea, più istintiva, conviene il dono che ha più dell'istinto, del sentimento, perché, se le proposizioni si concludono, «i principii si sentono...».

     Certo la natura non potrebbe, per se stessa, conoscere intuitivamente la Verità di Dio, principio dei principii, che definì se stesso: Io sono Colui che sono. Ma perché questo Dio, che ripone la sua gloria nel perfezionar la natura (senza dubbio per far meglio risaltare con il confronto lo splendore dei suoi doni gratuiti), non si sarebbe rivelato a una santa in un modo appropriato alle tendenze del suo sesso, cioè come un principio la cui verità richiede di essere sentita piuttosto che ragionata, come «un Dio sensibile al cuore»(45)?

     «Figlia mia, tu sei quella che non è, ed io sono Colui che sono». Non lunghi discorsi: la parola di Cristo porta la sua prova in se stessa: è concisa, è luminosa come un principio, si direbbe una di quelle sentenze del divin Maestro che riempiono il Vangelo.

    «Oh! quanto grande è questa parola e com'è estesa questa dottrina così semplice - esclama il beato Raimondo da Capua. Che sapienza immensa in queste poche parole! Chi mi darà di intenderle? chi me ne rivelerà i segreti e me ne farà misurare l'infinito?» [O verbum abbreviatum et grande! o doctrina brevis, et quodammodo infinita! o immensa sapientia, syllabis admodum explicata brevibus! Quis mihi det, ut te intelligere valeam? quis mihi aperiet signacula tua? quis me deducet, ut tuam abyssalem profunditatem intuear? (Raimondo da Capua, Vita Sanctae Catherinae senensis (Legenda maior), 2,6; Vita, Auctore Fr. Raimundo Capuano... Ex editione Coloniensi collata cum MS, in: Acta Sanctorum, Aprilis, Tomus III, Anversa, Apud Michaelem Cnobarum, 1675, pag. 876)]. E, come per rilevare con il suo proprio esempio la differenza tra il genio proprio del teologo e il dono della santa, si diffonde in lunghi commenti su questa parola del Signore. Ma deve fermarsi senza averlo esaurito e riconoscere che tutto quello che potrebbe dire è noto a chiunque ha penetrato queste due parole: Tu sei quella che non è. Io sono Colui che sono.

     No, il ragionamento non potrebbe misurarne l'infinito. Chi dunque, ancora una volta, ci darà di comprenderle? Sentiamo Bossuet: «Dio è Colui che è: tutto ciò che è ed esiste, è ed esiste per lui: egli è quell'Essere vivente nel quale tutto vive e respira... Si ha solo da consentire e da aderire alla verità dell'Essere di Dio: consentire alla verità, quest'atto solo basta. Badate che io dico consentire alla verità, poiché Dio è il solo Essere vero. Aderire alla verità, consentire alla verità, è aderire a Dio, è mettere Dio in possesso del diritto che egli ha sopra di noi. Questo atto solo comprende tutti gli atti; è il più grande, il più alto che possiamo fare»(46).

     Solo l'intuizione penetra i principii: quando il divino si rivela a noi sotto questa forma abbreviata, conviene lasciare il ragionamento; bisogna, come dice ancora Bossuet, «risolversi interamente in uno sguardo semplice». Questo sguardo semplice è opera del dono dell'Intelletto.

    Ma, si dirà, che cosa diventa, nelle chiarezze dell'intuizione, l'oscurità della fede? San Tommaso si fece questa domanda e rispose che vi sono due specie di oggetti proposti alla nostra fede: vi è anzitutto l'essere divino e i suoi misteri; poi un gran numero di verità ordinate alla manifestazione dei primi: la S. Scrittura è piena di questa sorta di verità che sono l'oggetto secondario della nostra fede (47).

     Il dono dell'Intelletto può darci una conoscenza perfetta di queste ultime. Nella storia di S. Caterina, numerosi tratti ne fanno testimonianza, segnatamente quella meravigliosa penetrazione della S. Scrittura che palesano tutti i suoi scritti. Il versetto più noto, questo per esempio: Deus in adjutorium meum intende [Salmi 69,2], diventa il soggetto delle sue replicate meditazioni. Il Salmo Jubilate Deo omnis terra [Salmi 65,1b] la solleva in rapimenti inesprimibili. Non la finirei, se volessi esplorare tutto questo lato intellettuale di S. Caterina. Citiamo solo un fatto: alcuni giorni prima della sua morte, disse «che al lume di una fede viva, aveva veduto e perfettamente compreso, nella sua mente, che tutto quello che accadeva a lei e agli altri veniva da Dio e aveva la sua causa nel grande amore che egli ha per le sue creature»(48). Il lume di una fede viva: così ­ e ne daremo subito un'altra prova - S. Caterina chiama continuamente il dono che produce le intuizioni della sua contemplazione. Le sue proprie parole dimostrano che questo lume si collega con l'oscurità inerente alla fede.

     Di fronte all'Essere di Dio e dei misteri divini, la fede è completa. Nondimeno il dono dell'Intelletto, secondo S. Tommaso, ci fa penetrare più avanti nella cognizione del mistero stesso. Come ciò? Perché, ripiglia il nostro santo Dottore, è altresì un avanzarsi nel conoscimento di Dio il sapere quello che egli non è (49). L'autore dell'Imitazione di Cristo parla come San Tommaso: «E’ necessario - dice egli - levarsi sopra tutto il creato, e abbandonare perfettamente se stesso, e in tale elevazione di mente vedere che Tu, Creatore di tutte le cose, non hai nulla di simile alle creature»(50).

    Così l'oscurità della fede rimane; ma, dal seno di questa oscurità, scaturisce una luce che, ponendo a riscontro della perfezione divina l'imperfezione di tutto ciò che è creato, dà una specie d'intuizione negativa e analogica dell'inaccessibile verità.

     Ma a che pro tentare di definire questa divina contemplazione, quando possiamo vederla all'opera in S. Caterina da Siena: «O abisso, o Deità eterna, o mare profondo, potevi tu darmi più di te stesso?.. Tu sei il lume che eccede ogni lume, che dài, con il tuo lume, all'intelletto un lume soprannaturale così abbondante e così perfetto, che il lume della fede stessa è più rischiarato. Io vedo che l'anima mia ha la vita in questa fede, e che riceve il tuo lume in questo lume... Onde ti domando, o Padre eterno, che m'illumini con il lume della santa Fede. Questo lume è un oceano che nutre l'anima finché è in te... Là dove abbonda il lume della fede, l'anima risplende, per dire così, di quello che crede. O Trinità eterna, sì, tu me l'hai fatto conoscere e comprendere, questo mare è uno specchio che la mano del tuo amore tiene davanti agli occhi dell'anima mia; ed io, tua creatura, mi vedo in te nel lume di questo specchio; tu ti presenti a me, ed io riconosco che sei il Bene supremo e infinito, il Bene sopra ogni bene... La Bellezza sopra ogni bellezza, la Sapienza sopra ogni sapienza; perché tu sei la Sapienza stessa... Chi potrà elevarsi verso di te per ringraziarti degnamente del tesoro ineffabile e delle grazie sovrabbondanti che mi hai fatte e della dottrina di verità che mi hai rivelata? Questa dottrina è una grazia speciale sopra la grazia generale che concedi agli uomini» [“O abisso, o Deitá etterna, o mare profondo! E che piú potevi dare a me che dare te medesimo? Tu se’ fuoco che sempre ardi e non consumi; tu se’ fuoco che consumi nel calore tuo ogni amore proprio de l’anima; tu se’ fuoco che tolli ogni freddezza; tu allumini; col lume tuo m’hai facta cognoscere la tua veritá; tu se’ quello lume sopra ogni lume, col quale lume dái a l’occhio de l’intellecto lume sopranaturale, in tanta abondanzia e perfeczione che tu chiarifichi el lume della fede, nella quale fede veggo che l’anima mia ha vita, e in questo lume riceve te, lume. Nel lume della fede acquisto la sapienzia nella sapienzia del Verbo del tuo Figliuolo; nel lume della fede so’ forte, costante e perseverante; nel lume della fede spero:[406] non mi lassa venire meno nel camino. Questo lume m’insegna la via, e senza questo lume andarei in tenebre; e però ti dixi, Padre etterno, che tu m’alluminassi del lume della sanctissima fede. Veramente questo lume è uno mare, perché notrica l’anima in te, mare pacifico, Trinitá etterna. L’acqua non è turbida, e però non ha timore, perché cognosce la veritá; ella è stillata, ché manifesta le cose occulte; unde, dove abbonda l’abondantissimo lume della fede tua quasi certifica l’anima di quello che crede. Ella è uno specchio, secondo che tu, Trinitá etterna, mi fai cognoscere; ché, raguardando in questo specchio, tenendolo con la mano de l’amore, mi rapresenta me in te, che so’ creatura tua, e te in me, per l’unione che facesti della Deitá ne l’umanitá nostra. In questo lume cognosco e rapresentami te, sommo e infinito Bene: Bene sopra ogni bene, Bene felice, Bene incomprensibile e Bene inextimabile. Bellezza sopra ogni bellezza; sapienzia sopra ogni sapienzia, anco tu se’ essa sapienzia. Tu, cibo degli angeli, con fuoco d’amore ti se’ dato agli uomini. Tu, vestimento che ricuopri ogni nuditá, pasci gli affamati nella dolcezza tua. Dolce se’ senza alcuno amaro. O Trinitá etterna, nel lume tuo il quale desti a me, ricevendolo col lume della sanctissima fede, ho cognosciuto, per molte e admirabili dichiarazioni spianandomi, la via della grande perfeczione, acciò che con lume e non con tenebre io serva te, sia specchio di buona e sancta vita, e levimi dalla miserabile vita mia; ché sempre, per lo mio difecto, t’ho servito in tenebre. Non ho cognosciuta la tua veritá, e però non l’ho amata. Perché non ti conobbi? Perché io non ti viddi col glorioso lume della sanctissima fede, però che la nuvila de l’amore proprio obfuscò l’occhio de l’intellecto mio. E tu, Trinitá etterna, col lume tuo dissolvesti la tenebre. E chi potrá agiognere a l’altezza tua a rendarti grazie di tanto smisurato dono e larghi benefizi quanto tu hai dati a me, della doctrina della veritá che tu m’hai data? che è una grazia particulare, oltre alla generale, che tu dái a l’altre creature.” (S. Caterina da Siena, (Libro della divina dottrina volgarmente detto Dialogo della divina provvidenza, Nuova ed. secondo un inedito codice senese a cura di Matilde Fiorilli, Bari : Gius. Laterza, 1912; fonte della trascrizione elettronica: www.liberliber.it, Progetto Manuzio, cap. 167)].

     Che differenza tra la fede ordinaria, sempre inferma e cercatrice (51), e questa fede fissa, anche intellettualmente, questa fede, diciamo la parola, che vede!

     Ma come vede? Non potrebbe esser questione di una rivelazione del mistero che trasformi lo sguardo dell'intelletto in visione senza mescolanza ed escluda la fede. Donde viene dunque questa luce speciale che illumina il divino senza svelarlo?

    Come abbiamo detto, è per il cuore che Dio compie, in questa vita, la divinizzazione della nostra stessa attività intellettuale. Lo Spirito Santo, per la carità, abita nei nostri cuori, e di lì fa irradiare i suoi doni (52). Non è già forse un effetto dell'amore umano rendere più intenso l'atto dell'intelletto applicato a conoscere l'oggetto che amiamo, fargli scorgere in parole, in gesti, in indizi insignificanti, un senso nascosto, eppure vero? Se l'amore ha di questi istinti, di queste divinazioni, equivalenti a lumi per la sicurezza della loro diagnostica, quando è abbandonato alle sue proprie forze, che sarà di un cuore che è sotto la dipendenza di Dio e del quale lo Spirito Santo si è costituito direttore, regolatore, guida di ogni istante! Come infallibili saranno questi divini impulsi! come è sicuro un tale istinto! come sono penetranti queste divinazioni! come è efficace nella sua dolcezza il lume così diffuso dallo Spirito Santo! Veni, lumen cordium!

    «Questo atto - dice Bossuet - deve farsi senza sforzo, con un ritorno di tutto il cuore a Dio. Dev'essere - cerco un termine per spiegarmi - dev'essere affettuoso, tenero, sensibile. Mi comprendete bene? Ma comprendo bene io me stesso? Perché è un certo movimento del cuore che non è punto sensibile della sensibilità umana, ma che nasce da questa gioia pura dello spirito. E nondimeno rallegratevi e dite soltanto in ogni tempo: consento, o mio Dio, a tutta la verità del tuo essere; faccio mia felicità di quello che tu sei; ecco la mia beatitudine anticipata. E' il mio paradiso ora e sarà il mio paradiso nel paradiso. Amen (53)».

     Questo atto luminoso e cordiale non è forse il fondo stesso dei ragionamenti e delle opere di S. Caterina? Essa vede perché ama. Non è più la semplice cognizione della fede: ama la verità che la cognizione della fede le dava; l'ha gustata, ed ora ritorna ad essa con uno sguardo mutato, con quello sguardo mutato di cui disse il profeta: Gustate prima, e poi vedete (54).

     Ma non si ferma lì il dono dell'Intelletto. S. Tommaso ci avverte che è un dono speculativo e pratico ad un tempo e che la sua azione deve farsi sentire nella nostra vita. Bossuet dice ancora: «Se è vero, com'è verissimo, che noi siamo tanto più operanti quanto più siamo spinti, animati, mossi dallo Spirito Santo, quell'atto per il quale noi vi ci abbandoniamo, e l'azione che egli fa in noi, ci mette, per così dire, totalmente in azione per Dio»(55). S. Tommaso, in una sintesi precisa quanto stupenda, vide, nelle beatitudini del Vangelo riferite da S. Matteo, questa attività dei doni, e si studiò di mettere in luce la corrispondenza di ciascuna di queste beatitudini con un dono dello Spirito Santo. Al dono dell'Intelletto corrisponde questa: Beati quelli che hanno il cuore puro, perché vedranno Dio. La purificazione del cuore è l'opera propria del dono dell'Intelletto in questa vita: il lume della visione è la ricompensa di questa purificazione meritoria, ricompensa, che, pur facendosi sentire fin da questa vita, non avrà il suo compimento che nell'eternità.

    Questa corrispondenza dell'Intelletto e della purezza è un tratto fondamentale della vita di S. Caterina. La veggente estatica è anche il modello dei penitenti. E, in quanto a quest'altra sorta di purezza del cuore che è la professione, senza mescolanza di errori, della fede cattolica, chi la coltivò più di questa ardente apostola? Così, per veder meglio, ella purifica incessantemente il suo cuore con la penitenza e con la fuga dei pregiudizi mondani; e ogni grado di contemplazione conquistato le ispira idee di un maggiore distacco. E' nell'anima sua un lavoro a doppia azione, nel quale la luce provoca la purezza del cuore, e la purezza del cuore produce chiarezze crescenti. Proclamando il vincolo che unisce il dono dell'Intelletto alla Beatitudine dei cuori puri, S. Tommaso, con una parola, ha rivelato la sua vita (56).

 

    Dottrina consolante! perché i doni dello Spirito Santo sono deposti, insieme con la grazia e con la carità, nell'anima di tutti i giusti (57). Spetta a noi, sotto l'azione della grazia, di usarne. Chi ci darà questa grazia? direte voi. Già l'avete, se la desiderate sinceramente, perché il vostro desiderio racchiude la preghiera di cui S. Agostino diceva: Se non sei ancora attratto, prega per essere attratto [“Semel accipe, et intellege: nondum traheris? Ora ut traharis” (In Evangelium Ioannis Tractatus centum viginti quattuor, 26,2)].

Dunque all'opera e dite: Io voglio usare di questo dono dell'Intelletto, che spero sia nell’anima mia per la grazia di Dio. Santa Caterina, aiutami.

     Allora prendete la S. Scrittura, preferibilmente uno di quei passi che la Chiesa distacca nella liturgia e con cui essa fa vibrare l'anima interiore nelle melodie del canto gregoriano, oppure prendete i salmi; o, nel Vangelo, «le parole del Signore», verba Domini, come diceva S. Agostino, questa, per esempio: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è Colui che ti dice: Dammi da bere» [Gesù le rispose: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva (Giovanni 4,10)] , o anche: «Bisogna che tu cresca ed io diminuisca» [Egli deve crescere e io invece diminuire (Giovanni 3,30)]. Poi, ritornate all'ospite interno, alla Trinità Santa, presente in voi per la grazia, oppure, se siete in chiesa, a Nostro Signore presente nel tabernacolo, e considerate quelle parole che avevate scelto come quelle che vi parlano del Dio che voi amate, come pronunziate in quell'istante medesimo per voi dal Dio che vive in voi. Gustate queste parole in questa presenza. E quando il movimento del vostro cuore si volgerà in contemplazione, voi scoprirete un'estensione, un'altezza, una larghezza, una profondità che prima non sospettavate, che la fede affatto nuda non vi mostrava, e di cui solo gli occhi del cuore, di un cuore in cui dovete sperare che abiti lo Spirito Santo, vi hanno dato l'intelligenza (58).

     Noterete allora quanto il vostro sguardo è offuscato da imperfezioni a cui non fate abitualmente attenzione, dall'amor proprio, dai pregiudizi, dall'amore dei vostri comodi, dalle idee false e anticristiane, e finalmente da quella lega che l’oro stesso della vita pia contiene. Come a S. Caterina il dono dell'Intelletto ispirerà anche a voi l'odio santo di voi stessi. E voi vi rivelerete più forti e risoluti a considerare d’ora innanzi «le cose dolci come amare e le cose amare come dolci», a cagione di Nostro Signore, e per crescere, sotto la condotta del suo Spirito, nell'intelligenza dei consolanti misteri della nostra fede.

 

 

 

 

VIII.

 

Il Dono della Sapienza.

 

S. TOMMASO D'AQUINO.

 

Crocifissione e santi, affresco dipinto dal Beato Angelico
nel Convento di San Marco, Firenze

    Nella Crocifissione [Crocifissione e santi, grande affresco nel Convento di San Marco, Firenze] del Beato Angelico due personaggi attirano principalmente l'attenzione dell'anima domenicana; e sono i due santi che stanno all'estremità del gruppo collocato a destra della croce. Al primo posto, in ginocchio, con le mani stese in un gesto di dolore e di compassione, S. Domenico. Il suo sguardo bagnato di lacrime, si alza a metà verso il Crocifisso, come se fosse ancora trattenuto da un altro spettacolo, quello della Vergine che, dall'altro lato della croce, sostenuta da Giovanni, da Maddalena e da Maria, sta per cadere in deliquio. All'ultimo posto, in piedi, con le mani ripiegate sul petto, con la testa protesa come per veder meglio, S. Tommaso d'Aquino [nato a Roccasecca (nel 1225 circa) dalla famiglia nobile dei conti d’Aquino, morto nell’abbazia di Fossanova il 7 marzo 1274; detto Doctor Angelicus, canonizzato dal papa Giovanni XXII nel 1323, proclamato Dottore della Chiesa nel 1567]. Il suo sembiante riflette un’impressione dolorosissima e concentrata; ma non piange, lui, bensì guarda: guarda fissamente Cristo crocifisso; e la commozione sorda che lo invade, anziché distogliere la sua pupilla, sembra anzi scavare la sua orbita, e trarre dalle profondità del suo occhio una fiamma intensa, come nel nero fondo di un vulcano si vede sorgere, potente e contenuto, un ribollimento di lava ardente.

     S. Domenico piangente, ma col cuore diviso tra il dolore di Cristo che espia per le anime e il dolore delle anime, che, ai piedi della croce, cominciano nella Vergine Maria il lungo martirio della loro unione con i patimenti di Cristo, ecco veramente l'Apostolo, ecco la sua doppia vocazione: contemplazione con il cuore e misericordiosa comunicazione. Ecco l'uomo del dono della Scienza! S. Tommaso, guardante in faccia il tremendo sacrificio, e, nonostante l'orrore del supplizio, padroneggiante i suoi tratti, come per non lasciare sfuggire nulla, come per entrare più a fondo nel mistero, ecco il Dottore, - ecco la sua vocazione, non più divisa, ma unificata nella sua doppia virtù: assorbirsi nel lume per diventare lui stesso luminoso, e, senza andarsene, illuminare a distanza, - ecco il rappresentante del dono della Sapienza.

    La sapienza, come egli ci insegna, è anzitutto una virtù intellettuale. Per essa ci assuefacciamo a giudicare ogni cosa dall’alto, dal più alto possibile, dal punto di vista divino. Mentre la scienza si ferma alle ragioni prossime, che non dànno mai se non una mezza luce, la sapienza, d'un balzo, ricorre alla spiegazione suprema. Il dotto, per spiegare l'armonia della natura, parlerà delle rivoluzioni siderali, di orbite, di rotazione, ecc.; egli dice il vero, ma non dà la ragione ultima. Il sapiente, teologo o filosofo, fa appello all'intelletto ordinatore di Dio. Con una parola egli ha spiegato tutto, se non rivelato tutto; perché dove si ferma la ragione, comincia il mistero.

     E per questo lo Spirito Santo, che «scruta le profondità di Dio» [Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio (1 Corinzi 2,10)], con un dono ci associa alla sua propria sapienza. Che differenza tra la virtù e il dono! Difatti in che consistono la nostra teologia e la nostra filosofia se non «nell'attingere l'ignoranza nella sua più alta sorgente»? Che cosa facciamo noi, teologi, se non stabilire, con maggiore esattezza che altri, e più da vicino, le sponde di abissi neri di misteri o di soli accecanti, inaccessibili nel loro centro allo sguardo umano, sia pur guidato dall'oscura chiarezza che cade dalla fede? E non è forse quello che sentono anche le anime semplici, quello di cui soffrono a volte i più intelligenti? Per la fede, trovarsi trasportati come davanti a una parete coperta di caratteri che ci annunziano le cose più sublimi e più consolanti, ma non poter penetrare il muro che ce le nasconde, ­ vedere che bisogna credere e non poter vedere, non fosse che per un istante, quello che si crede con tutta l'anima: o dura prova delle intelligenze, aperte quanto fedeli, per le quali il non credere sarebbe più doloroso che il non poter vedere!

    O Dottore della Crocifissione, dove dunque l'hai trovato, codesto occhio che, fissando il mistero, non resta vuoto, ghiacciato, morto come il nostro?, che, là dove io mi perdo nel vago, si mette a vivere d'una vita inaudita?, d'una vita che non conobbe l'occhio di Archimede riflettente la gioia del suo Eureka [secondo la leggenda questa parola, che vuol dire "Ho trovato!" in greco antico, sarebbe stata pronunciata da Archimede un giorno mentre faceva il bagno: immergendosi nella vasca e avvertendo la spinta idrostatica dell'acqua, ne aveva compreso la causa], e neppure l'occhio di Newton che per la prima volta intravide il mistero dei Cieli? Sei tu, o Beato Angelico, che in una fuga di immaginazione, hai trasfigurato così il tuo modello? Ma non è così che ci s'immagina, Tu lo vedesti. Il pittore Angelico comprese il Dottore Angelico. Ecco, certo, la verità.

 

S. Tommaso d’Aquino, dettaglio di una pala dipinta dal Beato Angelico

     O tu che così ti rivelasti all’anima dell'Angelico, per la virtù di questa santa immagine rivèlati a noi che non sappiamo guardare come te e che avremmo tanto bisogno di fortificare la nostra fede mediante le illuminazioni dei Doni. Tu che, visibilmente, penetri i misteri del Figlio di Dio incarnato e morente sulla croce, parla, noi ti ascoltiamo. I tuoi occhi, o veggente, saranno i nostri occhi. Tu che sperimenti le cose divine, scoprici qualcosa di quelle realtà alle quali il nostro cuore è sospeso, e davanti alle quali tuttavia le nostre intuizioni e i nostri ragionamenti di teologi o di fedeli restano impotenti.

      E l'affresco si è animato. E, simile all'acqua che si spande fuori del bacino profondo dove scaturisce una sorgente viva, io odo rispondere la voce che già soddisfaceva alle care importunità del carissimo compagno, fra Reginaldo [Reginaldo da Piperno (Piperno, .?. – Anagni, 1290), domenicano, lettore in teologia, eletto da San Tommaso per suo confessore e amico]:

     «Figlio mio, guarda questo Crocifisso. E' Dio. E' Dio incarnato per i nostri peccati. Per i nostri peccati, intendi? Per molto tempo ho ragionato come un filosofo. Mi pareva bello vedere nell'Incarnazione del Verbo il coronamento dell'universo, la gloria dell'umanità. Ero come titubante tra i santi libri che da per tutto mi mostravano la Redenzione come la causa dell'Incarnazione e questa sublime idea di un mondo che fa capo ad un essere divino, a un uomo i cui piedi riposerebbero sopra la terra nostra e sua, ma la cui testa, meglio che la vetta delle più alte montagne, abiterebbe nella luce inaccessibile della Deità (59). Ma, in questo momento, tutto si rischiara alla luce di questa croce, e vedo... La redenzione, ecco lo scopo, il solo scopo. Perché l'Incarnazione? Per la Redenzione. Non è principalmente per manifestare la divina potenza che un Dio s'incarnò; non è neppure per rappresentare la bontà di Dio e la sua liberalità divina; ma per far risplendere la sua misericordia, il più inenarrabile dei suoi attributi (60). Ora tutto si risolve nella santa parola: «Là dove abbondò la colpa, sovrabbondò il perdono.» [La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia (Romani 5,20)] ­ «Egli venne a salvare quello che era perduto» [il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto (Luca 19,10)]. Se dunque l'uomo non avesse peccato, egli non sarebbe venuto. «Togliete il male, togliete le lividure, e il medico non è più necessario». - «O felice colpa che ci meritò un tanto redentore (61)!» [O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem (citazione dall’Exsultet o Preconio Pasquale)] - Bisognò fare il sacrificio di un motivo inferiore; di una bella idea, ma che era solo un'idea umana, dovetti piegare una volta di più la mia intelligenza sotto i dettami della fede: ed ecco che, per la fede, ho ritrovato la luce, la causa più alta del mistero si è rivelata; spiegavo l'Incarnazione come un uomo: ora ne vedo il motivo come Dio stesso lo vede. E questo motivo sono i nostri peccati; ed è la misericordia divina. E' questa croce che me lo rivela, ed ecco perché io la guardo così».

     Che lezione per noi, filosofi e teologi troppo umani, questa conversione intellettuale di un S. Tommaso, questa lieta cancellatura delle sintesi più seducenti davanti all'umile parola del Vangelo, dell'Apostolo, dei santi! E che lezione per noi, fedeli, che troppo spesso misuriamo le cose di Dio, i suoi insegnamenti, il governo della sua Chiesa, la condotta dei suoi ministri, dalle corte vedute che procedono dai nostri pretesi lumi, dalle nostre passioni o impressioni del momento, dalle nostre immaginazioni! Ah! noi non sappiamo abbastanza giudicare di tutte le cose, e particolarmente delle cose di Dio dalla causa più alta. Siamo pieni di noi stessi e, se non in fondo, almeno nella pratica reale della vita, troppo poco, ci diamo pensiero, quando giudichiamo, del punto di vista di Dio. Egli stesso disse: «I vostri pensieri non sono i miei pensieri e le vostre vie non sono le mie vie» [Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore (Isaia 55,8)]. Bisognerebbe pure uscire da una così funesta abitudine; la sola cura della verità lo esige.

    Ma, come possiamo dunque elevarci abbastanza da considerare ogni cosa con gli sguardi di Dio stesso? Una tale sapienza non è forse fatta per esseri totalmente sciolti dalle nostre miserie e dalle nostre debolezze come sono i beati?

     S. Tommaso stesso ci darà il suo segreto. Solo lo Spirito di Dio sa bene i misteri divini, ci dice egli. Con le nostre forze intellettuali noi arriviamo a scoprirne alcuni lineamenti. Ma che cosa è tutta la nostra filosofia in confronto del minimo raggio che allo Spirito Santo piacesse di mandarci dal seno della piena luce in cui egli abita? Entrare in relazione con lo Spirito Santo, ecco dunque il segreto della sapienza. «Ora - dice l'Apostolo - colui che aderisce a Dio, - intendi: per la carità, - non forma che uno spirito con il suo» [Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito (1 Corinzi 6,17)] (62). Il che certo non significa che noi per l'amore diventiamo un medesimo essere con Dio, ma che, essendo uniti a Dio per un sentimento profondo del cuore, - non del nostro cuore lasciato a se stesso, ma del nostro cuore fortificato, fissato da Dio stesso - noi non amiamo se non quello che egli ama, ed entriamo in una santa e abituale dipendenza di fronte a lui.

     L'effetto di questa dipendenza effettiva deve prima di tutto farsi sentire nella conformità dei nostri giudizi con i suoi. E poiché da noi stessi non possiamo elevarci fino alle concezioni di Dio, bisognerà dunque che il nostro Dio, per rendere effettiva la sua amicizia, ci faccia parte dei giudizi della sua sapienza. Ecco che cosa è formare un solo spirito con Dio. «E' l'essere istruiti dalla sua unzione, come dice S. Giovanni, e questo in ogni cosa» [E quanto a voi, l'unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna (1 Giovanni 2,27)] (63): il che vuol dire che l'anima, piena dell'amore di Dio si sente dolcemente e come con unzione toccata dai lumi superiori che la sollevano a un'altezza di vedute che non sapeva, a una purezza, a una penetrazione, a una dominazione del suo sguardo intellettuale che non sembra più essere di questa terra. Così, sulla vetta di una montagna, il viaggiatore contempla ogni cosa, e il mare procelloso e i colli rugosi, e le silenziose foreste e le città piene di rumore umano, e sente il suo cuore invaso dall'ineffabile gioia di essere per un istante distaccato dalle particolarità della terra e di poter dominarla con un solo sguardo.

     Nulla è riposante come un tale spettacolo: esso abbonda di riflessioni salutari. La piccolezza di quello che di solito irrita le nostre passioni ci appare in tutta la sua realtà. L'anima che vede dall’alto è di tratto ingrandita e pacificata. Per questo senza dubbio S. Agostino annette al dono della Sapienza la beatitudine dei pacifici: «Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio»(64). La pace non è altro che la tranquillità dell'ordine. Ora, solo colui che è capace di assicurare l'ordine, vede le particolarità nell'insieme, e, con uno sguardo superiore, giudica quello che è grande e quello che è piccolo. Per pacificare la propria vita, per pacificare la vita degli altri, è dunque assolutamente necessario elevarsi sopra di sé, sopra di tutti, e giudicarsi nella verità. Ma come fare? Non possiamo separarci da noi stessi, e poi non ci tocca vivere nel mondo? Come possiamo dunque elevarci sopra di noi stessi? Dov'è la montagna ove potremo, con uno sguardo libero e dominatore, valutare con verità la nostra vita e quella degli altri?

      Questa montagna è Dio. Dio domina, per natura, la sua creazione: possono a loro volta dominarsi e giudicare di tutto, come Dio, solo quelli, a cui egli comunica il suo giudizio. Ed ecco perché la figura del Figlio di Dio fatto uomo ci appare, nel suo Vangelo, con un'espressione unica di dominazione e di pace. Ecco un sapiente: ci giudica con pensieri diversi dai nostri; pensieri che egli dice con tutta semplicità, e che sono così profondi e pieni da far riflettere i sapienti di tutti i tempi. Ma dominandoci, non ci schiaccia; non finisce di spezzare la canna già rotta; non spegne il lucignolo che fuma ancora; è un pacificatore questo sapiente. La Divinità che abita in lui è come una cima, donde egli considera e giudica nella loro verità tutte le nostre cause di turbamenti e di guerra; donde fa irradiare nelle anime che credono alla sua parola l'ordine, la tranquillità e la pace. Ecco il modello.

     E' anche la ricompensa, perché disse: «Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio». Sì, qualcosa di questa dominazione intelligente e serena, di questo ordine tranquillo che caratterizzano la fisionomia del Figlio di Dio passerà nei sapienti della terra, e l'umanità, colpita da questa rassomiglianza, la proclamerà ad alta voce.

    Vedete S. Tommaso d'Aquino. Qual teologo, nei giudizi che trascorse l'intera vita a formulare su tutte le cose divine ed umane, fece maggiore stima della più alta causa, e si attenne di più al proprio pensiero di Dio? Chi fu più sapiente di quella sapienza che viene dall'Alto? Ma qual figura più intelligentemente serena, qual vita più pacifica, qual opera più pacificante?

    No, dopo il Vangelo, dopo l'Apostolo, non vi è lettura che dia alla mente l'impressione della tranquillità nell'ordine come quella delle opere di S. Tommaso. Gesù vede: S. Tommaso ragiona; ecco la differenza, ed è immensa. Ma i loro spiriti sembrano - oserò dirlo? ­ imparentati! Semplicità e profondità, universalità e finitezza di particolari, sublimità e condiscendenza, queste marche di fabbrica del Vangelo, noi le troviamo nell'opera di San Tommaso, in minor grado, ma in un grado eminente. Non sarebbe per avventura un verificarsi della legge posta dallo Spirito Santo stesso: «Colui che aderisce a Dio forma un solo spirito con lui»? E la rassomiglianza dell'intelligente e serena figura del Dottore Angelico con la fisionomia intellettuale di Nostro Signore, non sarebbe il compimento della promessa di felicità fatta ai sapienti: «Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio»?

 

 

 

IX.

 

I Doni dello Spirito Santo nel Cuore purissimo della Vergine Maria.

 

[Ad illustrazione di questo capitolo si veda la pagina immagini artistiche della Pentecoste , nelle quali tutti gli artisti danno un rilievo centrale a Maria]

 

     Salve Regina! Ecco il grido che esce più lietamente dal cuore di tutti i figli del beato Domenico. Ogni sera, i santi e le sante del nostro Ordine l'ebbero sulle labbra. Maria è la loro regina. Che cosa vuol dire? Non si tratta evidentemente che di una regalità spirituale. Ma quali doni possano assicurare una tale regalità, se non doni eccellenti dello Spirito? Per il suo cuore infiammato di un'eminente carità, abitazione scelta fra tutte dallo Spirito Santo, Maria regna su cuori anche essi ripieni di carità e abitati dallo Spirito Santo. In lei noi non dobbiamo più mettere in rilievo, come in ciascuno dei nostri santi, un dono speciale. La Sposa dello Spirito Santo è entrata a parte della pienezza di tutti i doni. I sette doni dello Spirito Santo emanano dal suo purissimo cuore e le formano come una gloria splendida e incomparabile. O Beati dell'Ordine di S. Domenico, adorni ciascuno di un dono prezioso ma speciale, salutate la vostra Regina. Salve Regina!

 

     S. Bernardino da Siena, avido di conoscere i misteri del purissimo cuore della Santa Vergine, si domanda ansiosamente come potrà penetrarne le profondità. E gli pare di trovare un'indicazione sicura in queste parole del Vangelo: Un uomo buono trae buone cose dal buon tesoro del suo cuore [L'uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive (Matteo 12,35)]. Si rammenta poi che il medesimo Vangelo ci ha riferito esattamente sette parole della beata Vergine. Ella parlò due volte all'angelo, due volte ad Elisabetta, due volte al suo divin Figlio, una volta ai servitori del banchetto di Cana. Ecco, egli esclama, i sette atti d'amore che ci dànno il suo tesoro, ecco le sette fiamme del suo cuore! La prima è quella dell'amore che separa, la seconda è quella dell'amore trasformatore, la terza è quella dell’amore che si dà, la quarta è quella dell'amore giubilante, la quinta è quella dell'amore che riposa, la sesta è quella dell'amore che compatisce, la settima è quella dell'amore consumatore (65).

    Queste caratteristiche dei gradi d'amore del purissimo Cuore della SS. Vergine ci sembra che corrispondano a diversi doni della Spirito Santo, benché l'ordine accettato da San Bernardino sia forse suscettibile di ritocchi, specialmente in ciò che riguarda la quarta «fiamma», amoris jubilantis, che corrisponde al cantico: Magnificat, e che noi trasferiremo al settimo posto, come quello che dà l'ultima parola di questo Cuore. Checché ne sia, per parlare delle misteriose operazioni dello Spirito Santo nel Cuore della SS. Vergine, non si potrebbe trovare una base più autentica di queste parole riferite nel Vangelo. Ci applicheremo dunque a meditarle per scoprirne i segreti.

 

PRIMA PAROLA: IL DONO DEL TIMORE

 

«L'Angelo le disse: Non temere, Maria; Poiché hai trovato grazia dinanzi a Dio. Ecco che concepirai e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù... E Maria disse all'Angelo: In qual modo avverrà questo, mentre io non conosco uomo?».

Luca 1,30-34 (66)

 

«Non temere, Maria». Queste parole dell'angelo ci mettono subito sulla via. Maria alla sua vista si era turbata e si domandava che cosa significasse il suo saluto. «Non temere, Maria; poiché hai trovato grazia dinanzi a Dio». E l'angelo espose le magnificenze della grazia divina: Ella partorirà un figlio. Gesù sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo, e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide suo Padre. Egli regnerà sopra la casa di Giacobbe eternamente e il suo regno non avrà fine. Questo messaggio non fa che raddoppiare il timore di Maria; ma la sua risposta ci palesa la natura del suo timore. E' il timore di una figlia di Dio, di una Vergine casta che, sotto l'ispirazione dello Spirito, ha consacrato la sua Verginità all'Altissimo, e, per piacere a lui, si è separata per sempre da ogni speranza mondana. La sua risposta è il grido dell'amore che separa, cioè del timor filiale che respinge lontano dal giusto tutto quello che può distrarlo da Dio. «Come avverrà questo, mentre io non conosco uomo?».

 

    Beati i poveri di spirito, perché di loro è il regno dei cieli. Maria è povera di spirito, si spogliò di ogni bene creato, compresa anche quella speranza che faceva battere il cuore di tutte le figlie d'Israele e loro insegnava a considerare la verginità come un obbrobrio, rinunziò al matrimonio, ed, anche dopo il messaggio dell'angelo, intende di restar vergine. Onde la beatitudine riservata a quelli che, temendo Iddio, sono poveri di spirito sta per compirsi in lei. Il regno dei cieli è di lei, poiché Gesù, il gran re di questo regno, sta per incarnarsi nel suo seno.

 

SECONDA PAROLA: IL DONO DELLA FORTEZZA

 

    «L'Angelo le rispose: Lo Spirito Santo scenderà sopra di te, e la virtù dell'Altissimo ti adombrerà. E per questo ancora quello che nascerà da te, Santo, sarà chiamata Figlio di Dio... Poiché nulla è impossibile a Dio.

    «E Maria disse: Ecco l'ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola!».

Luca 1,35-38

 

    Che trasformazione! All'esitazione inquieta subentrò la confidenza assoluta, la risoluzione di abbandonarsi senza riserva all'azione di Dio che può tutto, rimuove tutti i pericoli e ci conduce sicuramente alla meta più inaccessibile. Come conservare la sua verginità, e diventar madre? L'angelo rispose: Nulla è impossibile a Dio. E Maria disse: Ecco l'ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola. Grido dell'amor trasformatore, cioè del dono della Fortezza. «A volte - dice S. Tommaso - lo Spirito Santo muove lo spirito dell'uomo in modo che egli compia l'opera sua sfuggendo a tutti i pericoli che lo minacciano. Quando non è in poter dell'uomo il conseguire un risultato, o lo sfuggire un pericolo... lo Spirito Santo che guida il nostro cammino verso la vita eterna interviene, e produce nell'anima una sicurezza che esclude ogni timore contrario. Questo dono dello Spirito Santo è il dono della fortezza »(67). Questo passo del Santo Dottore non è forse il commento letterale della trasformazione prodotta in Maria? Ella diceva tutta tremante: come avverrà questo? E l'angelo le rispose: La virtù dell'Altissimo ti adombrerà. Niente è impossibile a Dio. Lo spirito della fortezza la ispira, ed ella dice, come agguerrita: Ecco l'ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola.

 

     Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Ecco la beatitudine annessa da S. Agostino al dono della Fortezza. Maria ebbe veramente la fame e la sete della giustizia, poiché, messa in presenza del compimento in lei della grande promessa d'Israele, mantenne i diritti della promessa della verginità, fatta a Dio. Beata Maria, eccola saziata. Darà alla luce il Messia e resterà Vergine. Il santo Bambino che nascerà da lei sarà chiamato Figlio di Dio. O beata, beata Maria, sempre vergine e madre del suo Dio!

 

TERZA PAROLA: IL DONO DELLA PIETA'

 

     «Maria in quei giorni stessi andò frettolosamente sulla montagna a una città di Giuda. Ed entrò in casa di Zaccaria, e salutò Elisabetta. E avvenne che appena Elisabetta udì il saluto di Maria, il bambino balzò nel suo seno, ed Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo, ed esclamò ad alta voce e disse: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo ventre».

Luca 1,39-42

 

    Maria salutò Elisabetta. Quale fosse questo saluto, il Vangelo non lo dice. Fu il grido dell'amore che si comunica, che, possedendo il suo bene, non aspira se non a diffonderlo. Ed eccolo subito comunicato; il figlio d'Elisabetta, figura di tutta l'umanità, balza nel seno di sua madre, e sua madre è ripiena dello Spirito Santo che abita in Maria. Lo Spirito di Maria che saluta Elisabetta è lo Spirito di pietà. La pietà non è forse quel dono di Dio che ci spinge a riverire non solo Iddio, Padre della famiglia cristiana, ma anche questa famiglia stessa in tutti i suoi membri, a renderle tutti i doveri che le dobbiamo, a comunicarle il meglio di ciò che abbiamo? Non è forse esattamente quello che fa Maria, che si reca, con tutta fretta, attraverso le montagne, a prestare la sua assistenza alla cugina Elisabetta, a rallegrare il cuore della sua parente con la presenza del Benedetto d'Israele che porta nel suo seno, a santificare anticipatamente il Precursore, presagio della santificazione futura dell'umanità? Così Elisabetta riconosce il dono della pietà che ispira a Maria i suoi passi: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo ventre. E donde a me questo che la madre del mio Signore venga da me? ... Te beata che hai creduto, perché si adempiranno le cose dette a te dal Signore».

 

   Sì, beata, beata Maria! Secondo S. Tommaso le beatitudini del Vangelo si disputano l'onore di dipendere dal dono della pietà, certamente perché questo dono eccellente non si può esercitare senza sollevare sopra i propri passi una compagnia di eccellenti desideri. Beati i mansueti, perché possederanno la terra; beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati; beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia. Sembra che l'atto del dono della pietà sia formato da ciò che vi è di meglio in questi tre doni: la mansuetudine, la giustizia e la misericordia. E tutto questo infatti si trova nella Visitazione di Maria Santissima. Il suo saluto fu dolce, come attesta l'accoglienza che le fece Elisabetta; la sua visita fu un atto di giustizia, poiché compiva un dovere; l'opera di santificazione che compì fu misericordiosissima. Ecco dunque come ella, nel medesimo tempo, possiede la terra per la santificazione che vi produce, è saziata per la gioia che suscita la sua visita e vede confermarsi in lei la misericordia del Signore per la nuova sicurezza che reca alla sua felicità la profezia d'Elisabetta: Beata lei che ha creduto, perché le cose che le furono dette avranno il loro compimento.

 

QUARTA PAROLA: IL DONO DEL CONSIGLIO

 

«Tre giorni dopo vi furono nozze in Cana di Galilea, ed era qui la Madre di Gesù. E fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli alle nozze. Ed essendo venuto a mancare il vino, dice a Gesù la Madre: Non hanno più vino. E Gesù le disse: Che ho io da fare con te, o donna? Non ancora è venuta la mia ora».

Giovanni 2,1-4

 

«Non hanno più vino». Quanto è grande, in queste brevi parole, la fiducia di Maria nel Figlio! Non sollecita, non domanda neppure; conoscendo il cuore di lui, si contenta di manifestare il suo. Sì, manifesta il suo cuore, cuore di padrona di casa e di invitata, delicatamente commosso dal rossore che sta per provare il suo ospite. Non hanno più vino: è il consiglio appena sussurrato da una madre, conscia del cuore e dell'onnipotenza del figlio, e che riposa pienamente sull'uno e sull'altra: Flamma amoris soporantis. Chi può ispirarle un modo così insinuante e così fermo ad un tempo, così degno del Dio a cui ella si rivolge, perché è un Dio che ella osa consigliare, un modo tuttavia così bene improntato dei suoi diritti di madre? Se il consiglio fu mai largito in dono ad una creatura mortale, lo fu certamente in questa circostanza. Chi potrebbe trovare da sé la forza persuasiva di un simile consiglio? Non è forse l'atto di una prudenza consigliata dall’alto, di una prudenza diretta dal gran Consigliere?

 

    Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia. A primo aspetto, sembra che Maria non abbia ottenuto misericordia: «Donna - le dice Gesù - che ho io da fare con te? Non ancora è venuta la mia ora». Ma ciò non è se non un'apparenza. Le madri sanno ciò che si nasconde sotto le esteriorità di freddezza che i loro figli grandi oppongono alle loro proposte. Sanno che, mentre resistono in nome della ragione, già cedono nel loro cuore. Maria non s'inganna. Il suo cuore misericordioso per questa povera gente sa che otterrà pietà. E comanda ai servitori di fare tutto quello che dirà suo figlio, e il miracolo si compì. Il suo consiglio prevalse, perché in fondo, era il consiglio di un amore ispirato dal Dio di misericordia. Beata lei per essere stata così misericordiosa, perché ottenne misericordia.

 

QUINTA PAROLA: IL DONO DELLA SCIENZA

 

«Gesù le dice: Che ho io da fare con te, o donna? Non ancora è venuta la mia ora. Dice sua Madre a coloro che servivano: Fate quello che vi dirà... E Gesù disse loro: Riempite di acqua le idrie. Ed essi le riempirono fino all'orlo. E Gesù dice loro: Attingete adesso, e portate al maestro di tavola. E ne portarono. E appena ebbero fatto il saggio dell'acqua convertita in vino, il maestro di tavola chiama lo sposo, e gli dice: Tutti servono da principio il vino migliore, e quando già sono brilli, allora dànno quello meno buono; ma tu hai serbato il migliore fino ad ora».

Giovanni 2,4-10

 

   Non ancora è venuta la mia ora, dice Gesù. Ma quella di Maria è venuta, ed essa lo sa. L'ora di Maria è l'ora in cui l'uomo si trova nell'imbroglio, nel dolore, nella miseria. Ella conosce tutte le nostre sofferenze, dalla piccola ferita di amor proprio dell'ospite che, in pieno banchetto, si trova a non aver più niente da offrire ai suoi invitati, fino alle dolorose sofferenze che minacciano nel suo fondo la nostra vita. Ella sa tutto questo, e la sua scienza non è inoperosa. Flamma amoris compatientis. E' la fiamma dell'amore che compatisce: fate tutto quello ch'egli vi dirà, dice ai servitori. Chi dunque le ispira questo ardire? Come osa ella regolarsi come se questa ora fosse venuta, quando il Maestro dice: Non è ancora venuta la mia ora? E' perché lo Spirito dell'Altissimo la anima di una scienza superiore. E perché sotto la dura parola: «Che ho io da fare con te, o donna?» ella scopre, per ispirazione dello Spirito Santo, il Cuore di Colui che dirà presto: Ho pietà della turba. Misereor super turbam [misereor super turba quia ecce iam triduo sustinent me nec habent quod manducent (Marco 8,2)].

 

     Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. E' la beatitudine da S. Agostino annessa al dono della Scienza, e giustamente; perché quanto meglio si conosce il mondo, tanto più si vede che è triste e pieno di miserie.

     Il cuore delicato di Maria intravide nell'affanno del maestro di tavola la pena umana. E' poca cosa, ma sufficiente, quando si è ispirati dallo Spirito della Scienza. Ella sa, e piange con quelli che piangono. Non hanno più vino! Che accento pietoso! Ma dopo: Fate tutto quello che vi dirà. E l'acqua si cambia in vino, e l'ansietà che stava per raggiungere il cuore dello sfortunato anfitrione si cambia per giunta in allegria. E Maria gode deliziosamente di udire il maestro di tavola che dice allo sposo, il quale non aveva sospettato di niente: Tu hai serbato il buon vino fino ad ora. Che consolazione per questo cuore delicato! Dunque beati quelli che piangono, istruiti dal dono della Scienza, perché saranno consolati!

 

 

SESTA PAROLA: IL DONO DELL'INTELLETTO

 

     «Avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel tempio che sedeva in mezzo ai dottori, e li ascoltava, e li interrogava; e tutti quel che l'udivano restavano attoniti della sua sapienza e delle sue risposte. E, vedutolo, ne rimasero stupiti. E la Madre sua gli disse: Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco che tuo padre e io addolorati andavamo in cerca di te. Ed egli disse loro: Perché mi cercavate voi? Non sapevate come debba occuparmi nelle cose spettanti al Padre mio? Ed essi non compresero quel che egli aveva loro detto. E se n'andò con loro e fece ritorno a Nazaret, ed era ad essi soggetto. E la Madre sua tutte queste cose conservava in cuor suo».

Luca 2,46-52

 

     «Figlio, perché ci hai fatto questo?». Vi è qui dono dell'intelletto? «Ed essi non compresero quel che egli aveva loro detto». E qui pure, vi è dono dell'intelletto? Come dunque in queste parole di Maria vediamo noi l'espressione del dono dell'Intelletto? ­ Ma non abbiamo letto sino in fondo il nostro testo: «La Madre sua tutte queste cose conservava in cuor suo». Ecco, questa volta, l'opera del dono dell'Intelletto.

     Per trovare, bisogna cercare, per ricevere, bisogna domandare. Nel Cantico dei Cantici, in cui i santi hanno veduto gli amplessi dell'intelletto umano e della Divinità, vi sono fasi di ricerca e istanti di incontro, istanti di incontro fuggitivo e di possessi silenziosi. Maria è la Sposa dei Cantici. Gesù è il suo diletto. Ella lo conosce per lo Spirito dell'intelletto che riposò sopra di lei nella sua Annunciazione. Ma il dono dell'Intelletto sopra questa terra non esclude le oscurità della fede. L'anima vede tutto a un tratto, sotto un impulso più forte del cuore, ma, dopo un istante, il diletto si è sottratto. Essa non può riprenderlo, e lo cerca. «Lui cercai, che è l'amore dell’anima mia; lo cercai, e non lo trovai. Mi alzerò, e andrò attorno per la città; per le contrade e per le piazze cercherò di lui, che è l'amore dell'anima mia. Mi trovarono le sentinelle che stanno a guardia della città. Avreste mai veduto colui, che è l'amor dell'anima mia? Quand'io le ebbi oltrepassate di poco, trovai l'amore dell'anima mia »(68). Dobbiamo leggere la nostra narrazione con questa parafrasi figurativa. Anche in Maria il dono dell'Intelletto non esclude la non-comprensione momentanea. Anzi l'esige, al fine di provocare una ricerca ansiosa, di suscitare, con l'abbandono del Dio amato, un movimento più forte del cuore, che si palesa con una fiamma più ardente: Flamma amoris consummantis. Avete veduto colui che è l'amore dell'anima mia, dice allora la Sposa alle sentinelle della città: e Maria disse a suo Figlio: Ecco che tuo padre e io addolorati andavamo in cerca di te.

     Gesù risponde ricordando la sua paternità divina; ed essi non compresero quello che egli loro diceva, dice il Vangelo. In quell'istante, Giuseppe e Maria non compresero, ma, come la Sposa dei Cantici, che oltrepassò le sentinelle, trovò colui che è l'amore dell'anima sua, Maria ci vien mostrata nell'atto di conservare tutte queste cose in cuor suo. Che cosa significa? che comprende finalmente? No, non è possibile. Ma fa di meglio: ella vede. Vede con quegli occhi del cuore, che non escludono l'oscurità, ma che dànno un'intelligenza più immediata e più certa che nitidezze di evidenza.

     Non comprende, ma sotto l'ispirazione dello Spirito, sente la felicità d'essere la Sposa di quel Padre Eterno, che è padre di suo figlio, e la madre di quel figlio che già si occupa degli affari di suo Padre: lo sente intimamente, silenziosamente, lo conserva in cuor suo.

 

     Beati i cuori puri, perché vedranno Dio. Il cuore di Maria è purissimo. Ella non ha altro amore che il Padre, il Figlio e lo Spirito. Vive dell'intelligenza dei più profondi misteri della Divinità. Ecco perché è felice.

 

 

SETTIMA PAROLA: IL DONO DELLA SAPIENZA.

«Magnificat anima mea Dominum».

Luca 1,46-55

 

    E' il Cantico di Maria, la fiamma dell'amore giubilante, secondo S. Bernardino. E' la voce dell'entusiasmo che nasce nel più profondo di un cuore in cui Dio ha stabilito il suo dominio in modo assoluto e regale. Un tal cuore vede Iddio dappertutto, in tutte le contingenze della sua vita, in tutte le sorgenti della storia del mondo. Dio diventa per quel cuore la grande realtà fondamentale che si nasconde sotto le apparenze delle cose. In lui e per lui viviamo, ci muoviamo e siamo. Quel cuore giudica di tutto per mezzo di questa causa suprema, infinita e profonda. Cerca di entrare in comunicazione con la sapienza che regge il mondo, di identificare le proprie vedute con le sue. E poiché questa ispirazione gli viene dalla carità, di cui lo Spirito Santo tiene il governo, nulla potrebbe impedire a questa identificazione di diventare una realtà. Ecco il dono della sapienza, il dono di quei pacifici entusiasti, i quali sentono che il Dio che governa il mondo è con essi e vorrebbero diffondere questo sentimento nell'intero universo. E' proprio lui che riposa su Maria nel momento che ella - piena dello Spirito di Dio, dopo che questo medesimo Spirito di Dio ebbe invaso Elisabetta, e il figlio di lei, figura dell'umanità, ebbe sussultato - espande in questo cantico, in cui l'amore di Dio appare ad ogni versetto, come l'ultima parola del suo purissimo Cuore:

    L'anima mia magnifica il Signore ed esulta il mio spirito in Dio, mio Salvatore, perché ha rivolto lo sguardo alla bassezza della sua serva.

    Ed ecco che da questo punto mi chiameranno beata tutte le generazioni. Perché grandi cose ha fatto in me Colui che è potente.

    E santo è il nome di lui e la sua misericordia di generazione in generazione sopra coloro che lo temono.

    Fece un prodigio con il suo braccio; disperse i superbi nel pensiero del loro cuore.

    Ha deposto dal trono i potenti, e ha esaltato gli umili.

    Ha ricolmati di beni gli affamati, e a mani vuote ha rimandato i ricchi.

    Accolse Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia; come parlò ai padri nostri, ad Abramo e ai suoi discendenti per tutti i secoli.

 

 

 

I doni in cielo.

 

 

PENTECOSTE DOMENICANA

 

Schiere di santi domenicani, predella di una pala dipinta dal Beato Angelico

     «Questa città santa della Gerusalemme celeste non è irrigata dal corso di un fiume simile a quelli della terra; ma sgorgante dalla sorgente di Vita, che è lo Spirito Santo, di cui una debole goccia ci abbevera quaggiù, inonda gli spiriti beati con il torrente effervescente dei sette vigori spirituali »(69).

     Con questi termini S. Ambrogio afferma la permanenza, e descrive l’abbondanza dei doni dello Spirito Santo in cielo.

     In cielo le virtù morali non hanno più ragione di esistere, la speranza è compiuta, la fede lascia il posto al lume della gloria; tutte queste virtù spariscono con la vita terrena: solo la carità rimane. Essa rimane identica, ma infinitamente più ardente, perché non si alimenta più in un'oscura fede, ma in una visione faccia a faccia dell'Eterna Bellezza.

     La carità rimane: vale a dire, lo Spirito Santo non cessa di abitare nel cuore del beato, solamente non è più lì come il peso lontano dal suo centro di attrazione, e che incontra ogni sorta di ostacoli, ma come il peso giunto al suo termine, che gravita come una forza ormai senza impaccio e fissa indissolubilmente l'essere che anima alla meta dei suoi sforzi.

     Se lo Spirito Santo regna più che mai nel cuore del beato, è dunque perché i suoi doni non cessano di reggere la sua nuova attività. Infatti, perché i doni? L'abbiamo detto: è per rendere l'anima docile alla mozione dello Spirito. Ma quando sarà ella più docile a questa mozione, di quando sarà pervenuta a quella patria in cui Dio è tutto in tutti, omnia in omnibus, e in cui l'uomo sarà finalmente del tutto sottomesso a Dio (70) [cum autem subiecta fuerint illi omnia tunc ipse Filius subiectus erit illi qui sibi subiecit omnia ut sit Deus omnia in omnibus (1 Corinzi 15,28)]?

     Ma, se i doni sussistono in cielo, il campo di esercizio della loro azione è assai modificato. In cielo, non più quegli indugi che la speranza conosce, non più quella oscurità che la fede comporta, che ci fa udire e non vedere i misteri di Dio, non più quelle precipitazioni che impacciano la sicurezza dei nostri consigli, non più ignoranze da superare con la mortificazione, non più opere di misericordia da compiere, non più avversità da sopportare, non più orgoglio da frenare con timori salutari. I doni ci aiutano a vincere tutte queste difficoltà della vita. In cielo non ci sono più. E perciò, dice S. Gregorio Magno, in ciascun dono si considera qualche cosa che sparisce con lo stato presente (71).

     Ma aggiunge subito che qualche cosa resta, e questo non è l'ufficio meno glorioso dei doni.

    Il dono della Sapienza continua a riempire di certezze divine il cuore del beato; il dono dell'Intelletto lo illumina più che mai; il Consiglio riempie l'anima sua di soddisfazioni ragionevoli; il dono della Fortezza gli dà sicurezza; il dono della Scienza lo illumina a fondo; la Pietà gli ispira sentimenti di gratitudine espansiva; il dono del Timore gode, senza apprensione, le gioie dell'avvenire.

 

***

 

    La Vergine Maria è la prima a ricevere l'impronta dei doni così trasformati. Le apprensioni sante e la decisione coraggiosa dell'Annunciazione, il misericordioso saluto della Visitazione, il consiglio pietoso e la scienza delle vie del suo Figlio alle nozze di Cana, il raccoglimento silenzioso nell'intelligenza del mistero della Paternità divina, l'esaltazione del Magnificat, tutto questo si riflette nel suo cuore ed è riconoscibile nell'espressione del suo volto, ma quanto più penetrante! E' sempre la Vergine delle Sette Parole del Vangelo, ma quello che era allora velato come ogni merito umano, ora rifulge. L'ideale del suo cuore è chiaro e visibile. Buona madre, oh! come siete bella! Tota pulchra es [Tota pulchra es, Maria,/ et macula originalis non est in te, etc. (antifona)]!

     Maria ha sollevato il suo manto che avvolge l'Universo della sua virtù protettrice, e i nostri santi sono nel miglior posto, in quel posto in cui li vide S. Domenico, come uccellini sotto l'ala della loro madre.

 

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Incoronazione della Vergine, affresco del Beato Angelico nel Convento di San Marco, Firenze

    S. Domenico! Non è più il Domenico della Crocifissione [nell’affresco del Beato Angelico]. Non è più il dotto che piange, inginocchiato ai piedi della croce, sui peccati e sulle miserie che il suo dono della Scienza gli fece conoscere a fondo. Ma è il Domenico dell'Incoronazione della Vergine [affresco del Beato Angelico nel Convento di San Marco, Firenze], con la stella fiammeggiante in fronte, con il volto radioso, con lo sguardo fisso nel Dio tre volte santo e nell':atto di immergersi nelle origini divine del mistero della salvezza del mondo e ormai rasserenato dalla piena evidenza della Bontà che veglia sulla salvezza dei peccatori. Presso a lui, il suo figlio di predilezione, S. Giacinto, l'apostolo del futuro popolo martire, il santo che veglia sempre sull'Est dell'Europa e non cessa di pregare per la nazione che fu il suo retaggio. Egli partecipa alla gioia serena del suo Padre, perché vede senza veli il decreto eterno che ordina al sangue dei martiri di essere una semenza di cristiani. Sopra la sua fronte brilla una piccola stella, immagine di quella del beato Padre, immagine altresì del suo destino che è di gravitare attorno alla grande stella domenicana. Ed ecco sopra il manto della Regina del nostro Ordine una prima costellazione.

 

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S. Caterina da Siena, S. Agnese da Montepulciano, S. Rosa da Lima, S. Caterina de' Ricci, gruppo scelto nel quale gli splendori dell'intelletto, gli scintillii del timor filiale, la dolce luce della pietà, gli ardori rianimanti della fortezza, fondono le loro diverse armonie in una specie di concerto indefinibile e beatificante. Così, durante una bella notte di inverno, sulle rive di quei mari dove si riflettono le stelle, il viaggiatore, dall'alto di un promontorio, contempla lo scintillio vivo e raccolto dei cieli in preghiera. Tutt'a un tratto, verso sud, un gruppo trapezoidale di quattro stelle lucide emerge dalla linea dell'orizzonte e sale lentamente, riempiendo ogni angolo del cielo di una bianca luce. Alla punta davanti, un astro di prima grandezza uno dei più belli del cielo. E' la Spiga della Vergine e i suoi tre satelliti: il loro corteo forma la costellazione della Vergine. Tale è Caterina da Siena e le sue tre sorelle. Ed ecco, distaccato sul fondo azzurro cupo del manto della Regina, una seconda costellazione.

 

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   Nel cielo vi sono stelle, come Sirio, che hanno raggi imporporati e sanguigni. Con questo splendore rifulgono alla loro volta i nostri martiri, S. Pietro da Verona e S. Giovanni di Gorcum. Il loro sembiante riflette la fortezza, ma non più la fortezza tesa per la lotta; ma la fortezza della vittoria riportata, serena e calma. Sorridono, come al ricordo di un giuoco, dello sforzo del loro martirio, ora che vedono con evidenza quanto avevano ragione di non temere, ora che contemplano nella sua sorgente la forza che li sosteneva, l'onnipotenza dell'Eterno. Ed ecco sul manto di Maria l'imporporamento di una terza costellazione.

 

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    Ora i Predicatori apostoli. La loro anima non è più oppressa dai terrori salutari che lo spirito ispirava loro «per timore che dopo aver predicato agli altri, non fossero essi medesimi riprovati» [cfr. anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato (1 Corinzi 9,27)]. Hanno cessato di «dare nella loro carne compimento alla sofferenza che manca alla passione di Cristo» [cfr. Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa (Colossesi 1,24)]. Là splendono le glorie dei due apostoli spagnoli che si dividono i due mondi, S. Vincenzo Ferreri e S. Lodovico Bertrando. E S. Vincenzo non è più terrificante, e S. Lodovico non è più atterrito, perché davanti a loro sfoggia eternamente l'immenso oceano della divina misericordia. Ed ecco nel cielo del manto di Maria una quarta costellazione.

 

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   Gloria alla Trinità Santa, ecco la costellazione dei Dottori! E' la loro vecchia amica, questa santa e indivisibile Essenza di Dio. Come l'hanno essi scrutata mentre vivevano! Che fatica fu la loro! «Per causa tua - cantava il loro cuore - noi ci mortifichiamo tutto il giorno: siamo riguardati come pecore destinate al sacrificio» [Per te ogni giorno siamo messi a morte,/ stimati come pecore da macello (Salmi 43,22); Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello (Romani 8,36)]. L'altare del sacrificio era il loro tavolino da studio; la loro mortificazione era il lavoro intellettuale oscuramente dedicato al servizio della Fede. Ora vedono quello che hanno tanto studiato! O S. Raimondo, o S. Antonino, che sguardo avete! Com'è scintillante, com'è intenso, come divora, come si pasce avidamente!

    Ma, che cosa è dunque codesta luce inesprimibile, che rifulge dietro a voi come un incendio di fuochi d'oro? Tutto il manto della Vergine ne è illuminato, tutte le costellazioni celesti vedono la sua calda luce mescolarsi alla loro. Ecco S. Tommaso d'Aquino in estasi, all'ultimo posto, come nella Crocifissione del Beato Angelico: il suo sguardo aperto come un abisso senza fondo lascia entrare i torrenti di luce che sgorgano verso di lui dalla Trinità Santa! la gloria di Dio s'inabissa nella sua vasta intelligenza e scende fino nel suo cuore, e, se non fosse il suo petto che fiammeggia come un sole e produce tutto questo incendio, potremmo credervelo inghiottito. «Un sole immortale nasce dal suo petto» [L’iconografia usuale ritrae S.Tommaso con un libro in mano, una stella o un sole raggiante sulla fronte o sul cuore; talvolta appare una colomba (lo Spirito Santo) che gli suggerisce quello che deve scrivere]

    E sul manto della S. Vergine la quinta costellazione domenicana risplende come un sole.

 

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    Dietro a queste stelle di prima grandezza il cielo del manto della nostra Madre non è morto. Una luce discreta lo riempie e l'occhio che lo fissa crede ad ogni istante di vedere scintillare un numero infinito di piccole stelle. E non s'inganna, perché il fondo stesso del manto della Vergine è vivente; e vive d'un numero infinito di anime domenicane. Alcune sono anche discernibili: sono le protettrici del nostro Ordine, i nostri beati e le nostre beate. Poi, tutti i nostri fratelli e sorelle morti nel Signore, al canto della Salve Regina, dal tempo del beato Domenico; poi, i nostri fedeli fratelli e sorelle del Terz'Ordine, il cui cuore batté all'unisono con il nostro, i nostri benefattori, associati ai nostri suffragi, ufficialmente o no, poco importa, dal momento che furono associati alle nostre opere e ai nostri meriti; poi, l'innumerevole esercito delle anime devote al S. Rosario, dei confratelli del SS. Sacramento, del S. Nome di Gesù, della Milizia angelica [confraternita che promuoveva la castità sull’esempio e per l’intercessione di S. Tommaso, il Dottore Angelico], poi i dottori che professarono la nostra dottrina e, come i figli di S. Teresa [i carmelitani scalzi] e la stessa madre loro, «ne furono così benemeriti», poi, la moltitudine delle anime salvate dalle nostre predicazioni, dalle nostre preghiere, mortificazioni e buone opere. Ed ecco in tutto il cielo domenicano un bagliore profondo, uno scintillio lieto, un'animazione intensa e discreta che fa risaltare lo splendore degli astri di prim'ordine. Così, durante una bella notte, risplende in tutto il cielo, come un fondo vivente e lucido, in cui si distaccano e si evolvono le grandi costellazioni, lo splendido sfilare della via lattea.

 

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Anime sante, anime pie, anime domenicane, il manto della Madre vostra vi attende. Perché tardate ancora a seguire con docilità le ispirazioni dello Spirito che sposò Maria, e di cui vissero tutti i vostri santi? Voi siete esitanti, siete oppressi, siete deboli, avete paura del Soprannaturale. Avrete voi paura dello Spirito Santo, dello Spirito che fece Maria così eccellente e i nostri fratelli così amabili e così santi? «Non avete ricevuto uno spirito di servitù per essere ancora nel timore - dice San Paolo - ma avete ricevuto uno spirito di adozione per il quale gridiamo: Abbà! Padre. Lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se pure noi soffriamo con lui, per essere con lui glorificati »(72) [E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. (Romani 8,15-17)]. Ma voi non sapete come fare, donde cominciare: ebbene lasciate fare allo Spirito. Egli s'incarica di condurvi. Ascoltate piuttosto San Paolo: «Lo Spirito ci aiuta nella nostra debolezza, perché noi non sappiamo quello che ci conviene domandare nelle nostre preghiere. Ma lo Spirito stesso intercede con sospiri inesprimibili; e colui che scruta i cuori conosce il pensiero dello Spirito, perché secondo Dio intercede egli in favore dei Santi »(73) [Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio (Romani 8,26-27)]. Raccoglietevi dunque in questo santo giorno della Pentecoste, anniversario del giorno glorioso in cui lo Spirito di Dio prese possesso del mondo, raccoglietevi, in presenza della Santa Vergine Maria, Sposa dello Spirito Santo, di tutti i santi del nostro Ordine che furono suoi confidenti, suoi amici, suoi discepoli fedeli, e domandate allo Spirito che abita in voi, che interceda a vostro favore, con uno di quei sospiri inesprimibili che ottengono da Dio la Santità:      

 

Veni, sancte Spiritus,

Et emitte coelitus

Lucis tuae radium.

 

 

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NOTE

 

 

(1) Ad eccezione della profezia, ma la profezia non appartiene all'ordine morale di cui trattiamo.

 

(2) et requiescet super eum spiritus Domini, spiritus sapientiae et intellectus, spiritus consilii et fortitudinis, spiritus scientiae et pietatis (Isaia 11,2 versio vulgata).

 

(3) unumquodque quod perfecte habet naturam vel formam aliquam aut virtutem, potest per se secundum illam operari, non tamen exclusa operatione Dei, qui in omni natura et voluntate interius operatur. Sed id quod imperfecte habet naturam aliquam vel formam aut virtutem, non potest per se operari, nisi ab altero moveatur. Sicut sol, quia est perfecte lucidus, per seipsum potest illuminare, luna autem, in qua est imperfecte natura lucis, non illuminat nisi illuminata. Medicus etiam, qui perfecte novit artem medicinae, potest per se operari, sed discipulus eius, qui nondum est plene instructus, non potest per se operari, nisi ab eo instruatur. Sic igitur quantum ad ea quae subsunt humanae rationi, in ordine scilicet ad finem connaturalem homini, homo potest operari per iudicium rationis. Si tamen etiam in hoc homo adiuvetur a Deo per specialem instinctum, hoc erit superabundantis bonitatis, unde secundum philosophos, non quicumque habebat virtutes morales acquisitas, habebat virtutes heroicas vel divinas. Sed in ordine ad finem ultimum supernaturalem, ad quem ratio movet secundum quod est aliqualiter et imperfecte formata per virtutes theologicas, non sufficit ipsa motio rationis, nisi desuper adsit instinctus et motio Spiritus Sancti” (Summa Theol., 1-2, q. 68, a. 2, co.).

de donis dupliciter possumus loqui. Uno modo, quantum ad essentiam donorum, et sic perfectissime erunt in patria, sicut patet per auctoritatem Ambrosii inductam. Cuius ratio est quia dona spiritus sancti perficiunt mentem humanam ad sequendam motionem spiritus sancti, quod praecipue erit in patria, quando Deus erit omnia in omnibus, ut dicitur I ad Cor. XV, et quando homo erit totaliter subditus Deo. Alio modo possunt considerari quantum ad materiam circa quam operantur, et sic in praesenti habent operationem circa aliquam materiam circa quam non habebunt operationem in statu gloriae. Et secundum hoc, non manebunt in patria, sicut supra de virtutibus cardinalibus dictum est” (Summa Theol., 1-2, q. 68, a. 6, co.)

 

(4) Urbs Jerusalem beata,/ Dicta pacis visio,/ Quae construitur in coelis/ Vivis ex lapidibus,/ Et Angelis coronata/ Ut sponsata comite:/ Nova veniens e coelo,/ Nuptiali thalamo/ Praeparata ut sponsata/ Copuletur Domino:/ Plateae et muri ejus/ Ex auro purissimo:/ Portae nitent margaritis,/ Adytis patenti bus:/ Et virtute meritorum/ Illuc introducitur/ Omnis, qui ob Christi nomen/ Hic in mundo premitur./ Tunsionibus, pressuris/ Expoliti lapides/ Suis coaptantur locis/ Per manus Artificis:/ Disponuntur permansuri/ Sacris aedificiis. /Gloria et honor Deo/ Usquequaque Altissimo,/ Una Patri, Filioque,/ Inclyto Paraclito,/ Cui laus est et potestas/ Per aeterna saecula./ Amen (in anniversario dedicationis Ecclesiae, hymnus ad I vesperas; Breviarium juxta ritum Ordinis Praedicatorum).

 

(5) Louis Boitel, Sainte Catherine de Ricci, du Tiers-Ordre régulier de Saint-Dominique, par le R. P. Louis Boitel, Lille, Desclée De Brouwer et Cie, 1897, pag. 7.

 

(6) Opera citata, pagg. 17-18.

 

(7) Tutti questi particolari sono tolti dai Cenni sopra S. Giovanni di Colonia e suoi compagni, a cura del M. R. P. Daniel Antonin Mortier (Saint Jean de Cologne, Lille, Desclée De Brouwer et Cie, 1899).

 

(8) “dona Spiritus Sancti sunt quaedam habituales animae dispositiones quibus est prompte mobilis a Spiritu Sancto. Inter cetera autem, movet nos Spiritus Sanctus ad hoc quod affectum quendam filialem habeamus ad Deum, secundum illud Rom. VIII, accepistis spiritum adoptionis filiorum, in quo clamamus, abba, pater. Et quia ad pietatem proprie pertinet officium et cultum patri exhibere, consequens est quod pietas secundum quam cultum et officium exhibemus Deo ut patri per instinctum Spiritus Sancti sit Spiritus Sancti donum.” (Summa Theol., 2-2, q. 121, a. 1, co.).

 

(9) “in adaptatione beatitudinum ad dona duplex convenientia potest attendi. Una quidem secundum rationem ordinis, quam videtur Augustinus fuisse secutus. Unde primam beatitudinem attribuit infimo dono, scilicet timori; secundam autem scilicet, beati mites, attribuit pietati; et sic de aliis. Alia convenientia potest attendi secundum propriam rationem doni et beatitudinis. Et secundum hoc, oporteret adaptare beatitudines donis secundum obiecta et actus. Et ita pietati magis responderet quarta et quinta beatitudo quam secunda. Secunda tamen beatitudo habet aliquam convenientiam cum pietate, inquantum scilicet per mansuetudinem tolluntur impedimenta actuum pietatis” (Summa Theol., 2-2, q. 121, a. 2, co.).

 

(10) Louis Boitel, Sainte Agnès de Montpolitien, religieuse de l'Ordre de Saint-Dominique, par le R. P. Boitel,.Lille, Desclée De Brouwer et Cie, 1898.

 

(11) Exue te Hierusalem stola luctus et vexationis tuae et indue te decore et honore eius quae a Deo tibi est in sempiterna gloriae. Circumdato te deploide a Deo iustitiae et inpone mitram capiti tuo honoris Aeterni, Deus enim ostendet splendorem suum in te omni quod sub caelo est. Nominabitur enim tibi nomen tuum a Deo in sempiternum: Pax iustitiae et Honor pietatis (Baruc 5,1-4).

 

(12) Queste parole sono tratte dal capitolo dove S. Agostino annette le Beatitudini ai Doni: “Pietas congruit mitibus. Qui enim pie quaerit, honorat sanctam Scripturam et non reprehendit quod nondum intellegit, et propterea non resistit, quod est mitem esse; unde hic dicitur: Beati mites” (De sermone Domini in monte, lib. 1, 4,11).

 

(13) “Et ita pietati magis responderet quarta [beati qui esuriunt et sitiunt iustitiam quoniam ipsi saturabuntur] et quinta [beati misericordes quia ipsi misericordiam consequentur] beatitudo quam secunda. Secunda tamen beatitudo habet aliquam convenientiam cum pietate, inquantum scilicet per mansuetudinem tolluntur impedimenta actuum pietatis” (Summa Theol., 2-2, q. 121, a. 2, co.).

 

(14) Spiritus Domini super me propter quod unxit me evangelizare pauperibus misit me, praedicare captivis remissionem et caecis visum, dimittere confractos in remissionem, praedicare annum Domini acceptum et diem retributionis (Luca 4,18-19).

 

(15) “consilium proprie est de his quae sunt utilia ad finem. Unde ea quae maxime sunt utilia ad finem maxime debent correspondere dono consilii. Hoc autem est misericordia, secundum illud I ad Tim. IV, pietas ad omnia utilis est. Et ideo specialiter dono consilii respondet beatitudo misericordiae, non sicut elicienti, sed sicut dirigenti” (Summa Theol., 2-2, q. 52, a. 4, co.).

 

(16) “quando procedebam ad portam civitatis et in platea parabant cathedram mihi videbant me iuvenes et abscondebantur et senes adsurgentes stabant principes cessabant loqui et digitum superponebant ori suo vocem suam cohibebant duces et lingua eorum gutturi suo adherebat auris audiens beatificabat me et oculus videns testimonium reddebat mihi quod liberassem pauperem vociferantem et pupillum cui non esset adiutor. Benedictio perituri super me veniebat et cor viduae consolatus sum. Iustitia indutus sum et vestivit me sicut vestimento et diademate iudicio meo oculus fui caeco et pes claudo. Pater eram pauperum et causam quam nesciebam diligentissime investigabam” (Giobbe 29,7-16).

 

(17) iterum simile est regnum caelorum homini negotiatori quaerenti bonas margaritas, inventa autem una pretiosa margarita abiit et vendidit omnia quae habuit et emit eam (Matteo 13,45-46).

 

(18) Daniel Antonin Mortier, Saint Antonin de l’ordre de Saint Dominique, Archevêque et Patron de Florence, Lille, Desclée de Brouwer, 1896, pag. 27.

 

(19) Saint Antonin, pag. 8.

 

(20) Ibid.

 

(21) Ibid., pag. 24.

 

(22) “Ad primum ergo dicendum quod iudicare et praecipere non est moti, sed moventis. Et quia in donis Spiritus Sancti mens humana non se habet ut movens, sed magis ut mota, ut supra dictum est; inde est quod non fuit conveniens quod donum correspondens prudentiae praeceptum diceretur vel iudicium, sed consilium, per quod potest significari motio mentis consiliatae ab alio consiliante” (Summa Theol., 2-2, q. 52, a. 2, ad 1).

 

(23) “dona Spiritus Sancti, ut supra dictum est, sunt quaedam dispositiones quibus anima redditur bene mobilis a Spiritu Sancto. Deus autem movet unumquodque secundum modum eius quod movetur, sicut creaturam corporalem movet per tempus et locum, creaturam autem spiritualem per tempus et non per locum, ut Augustinus dicit, VIII super Gen. ad Litt. Est autem proprium rationali creaturae quod per inquisitionem rationis moveatur ad aliquid agendum, quae quidem inquisitio consilium dicitur. Et ideo Spiritus Sanctus per modum consilii creaturam rationalem movet. Et propter hoc consilium ponitur inter dona Spiritus Sancti” (Ibid., 2-2, q. 52, a. 1, co.).

 

(24) Ad primum ergo dicendum quod prudentia vel eubulia, sive sit acquisita sive infusa, dirigit hominem in inquisitione consilii secundum ea quae ratio comprehendere potest, unde homo per prudentiam vel eubuliam fit bene consilians vel sibi vel alii. Sed quia humana ratio non potest comprehendere singularia et contingentia quae occurrere possunt, fit quod cogitationes mortalium sunt timidae, et incertae providentiae nostrae, ut dicitur Sap. IX. Et ideo indiget homo in inquisitione consilii dirigi a Deo, qui omnia comprehendit. Quod fit per donum consilii, per quod homo dirigitur quasi consilio a Deo accepto. Sicut etiam in rebus humanis qui sibi ipsis non sufficiunt in inquisitione consilii a sapientioribus consilium requirunt” (Ibid., 2-2, q. 52, a. 1, ad 1).

 

(25) Ibid., si veda il passo citato nella nota precedente.

 

(26) “consilium proprie est de his quae sunt utilia ad finem. Unde ea quae maxime sunt utilia ad finem maxime debent correspondere dono consilii. Hoc autem est misericordia, secundum illud I ad Tim. IV, pietas ad omnia utilis est. Et ideo specialiter dono consilii respondet beatitudo misericordiae, non sicut elicienti, sed sicut dirigenti” (Ibid., 2-2, q. 52, a. 4, co.).

 

(27) Quinto autem gradu perseverantibus in labore datur evadendi consilium, quia nisi quisque adiuvetur a superiore, nullo modo sibi est idoneus, ut sese tantis miseriarum implicamentis expediat. Est autem iustum consilium, ut qui se a potentiore adiuvari vult, adiuvet infirmiorem in quo est ipse potentior. Itaque: Beati misericordes, quia ipsorum miserebitur” (S. Agostino, De sermone Domini in monte, lib. 1, 3,10).

 

(28) Saint Antonin, p. 16.

 

 (29) Ibid., p. 18.

 

(30) Ibid., p. 19.

 

(31) Ibid., p. 27.

 

(32) Atrae noctis obscuritas/ Antonini fulgoribus/ Fugatur, qui prodigiis/ Vitae et signorum radiat:/ Virginitate niveus,/ Doctrinae luce splendidus,/ Praesul et pastor optimus,/ Clarum virtutis specimen./ Pauper amavit pauperes,/ In miseros misericors,/ Intrepidus in perditos,/ Plusquan mitis in humiles./ Quam potens apud Dominum,/ Qui mortis jura subruit,/ In hanc lucem dum revocat/ Mortis revinctum nexibus! (ufficio liturgico di S. Antonino, hymnus ad matutinum; Breviarium juxta ritum Ordinis Praedicatorum).

 

(33) “Sed contra est quod Augustinus dicit, in libro de Serm. Dom. in monte, consilium convenit misericordibus, quia unicum remedium est de tantis malis erui, dimittere aliis et dare (Summa Theol., 2-2, q. 52, a. 4, s.c.).

 

(34) Tamen quaedam sunt quae beati, vel Angeli vel homines, non cognoscunt, quae non sunt de essentia beatitudinis, sed pertinent ad gubernationem rerum secundum divinam providentiam. Et quantum ad hoc est aliud considerandum, scilicet quod mens beatorum aliter movetur a Deo, et aliter mens viatorum. Nam mens viatorum movetur a Deo in agendis per hoc quod sedatur anxietas dubitationis in eis praecedens. In mente vero beatorum circa ea quae non cognoscunt est simplex nescientia, a qua etiam Angeli purgantur, secundum Dionysium, VI cap. Eccl. Hier., non autem praecedit in eis inquisitio dubitationis, sed simplex conversio ad Deum. Et hoc est Deum consulere, sicut Augustinus dicit, V super Gen. ad Litt., quod Angeli de inferioribus Deum consulunt. Unde et instructio qua super hoc a Deo instruuntur consilium dicitur. Et secundum hoc donum consilii est in beatis, inquantum in eis a Deo continuatur cognitio eorum quae sciunt; et inquantum illuminantur de his quae nesciunt circa agenda. (Summa Theol., 2-2, q. 52, a. 3, co.).

 

(35) “Adverte omnia diligenter, quomodo et cum apostolis ascendat, et descendat ad turbas. Quomodo enim turba nisi in humili Christum videret? Non sequitur ad excelsa, non ascendit ad sublimia.” (S. Ambrogio, Expositio Evangelii Secundum Lucam Libris X Comprehensa, lib. 5,46).

 

(36) “Quia igitur nomen scientiae importat quandam certitudinem iudicii, ut dictum est; si quidem certitudo iudicii fit per altissimam causam, habet speciale nomen, quod est sapientia, dicitur enim sapiens in unoquoque genere qui novit altissimam causam illius generis, per quam potest de omnibus iudicare. Simpliciter autem sapiens dicitur qui novit altissimam causam simpliciter, scilicet Deum. Et ideo cognitio divinarum rerum vocatur sapientia. Cognitio vero rerum humanarum vocatur scientia, quasi communi nomine importante certitudinem iudicii appropriato ad iudicium quod fit per causas secundas. Et ideo, sic accipiendo scientiae nomen, ponitur donum distinctum a dono sapientiae. Unde donum scientiae est solum circa res humanas, vel circa res creatas.” (Summa Theol., 2-2, q. 9, a. 2, co.)

 

(37) “circa scientiam et intellectum tria possunt considerari, primo quidem, acceptio ipsius; secundo, usus eius; tertio vero, conservatio ipsius. Acceptio quidem scientiae vel intellectus fit per doctrinam et disciplinam. Et utrumque in lege praecipitur. Dicitur enim Deut. VI, erunt verba haec quae ego praecipio tibi, in corde tuo, quod pertinet ad disciplinam, pertinet enim ad discipulum ut cor suum applicet his quae dicuntur. Quod vero subditur, et narrabis ea filiis tuis, pertinet ad doctrinam. Usus vero scientiae vel intellectus est meditatio eorum quae quis scit vel intelligit. Et quantum ad hoc subditur, et meditaberis sedens in domo tua, et cetera. Conservatio autem fit per memoriam. Et quantum ad hoc subdit, et ligabis ea quasi signum in manu tua, eruntque et movebuntur inter oculos tuos, scribesque ea in limine et ostiis domus tuae. Per quae omnia iugem memoriam mandatorum Dei significat, ea enim quae continue sensibus nostris occurrunt, vel tactu, sicut ea quae in manu habemus; vel visu, sicut ea quae ante oculos mentis sunt continue; vel ad quae oportet nos saepe recurrere, sicut ad ostium domus; a memoria nostra excidere non possunt. Et Deut. IV manifestius dicitur, ne obliviscaris verborum quae viderunt oculi tui, et ne excidant de corde tuo cunctis diebus vitae tuae. Et haec etiam abundantius in novo testamento, tam in doctrina evangelica quam apostolica, mandata leguntur” (Summa Theol., 2-2, q. 16, a. 2, co.).

 

(38) “Unde affectus ille connaturalizatur atque unitur Deo et experimentalem gustum de Deo habet, sed simul etiam habet gustum et experientiam de creaturis, formatque iudicium rectum de illis, tum ad contemnendum, ne ab illis inordinate ducatur, tum ad diligendum moderate, ordinando illas in Deum.” (Joannis a Sancto Thoma, in portoghese João Poinsot, Cursus Theologicus, 1-2, q. 70, disp. 18, a. 4, 57).

 

(39) “ad scientiam proprie pertinet rectum iudicium creaturarum. Creaturae autem sunt ex quibus homo occasionaliter a Deo avertitur, secundum illud Sap. XIV, creaturae factae sunt in odium, et in muscipulam pedibus insipientium, qui scilicet rectum iudicium de his non habent, dum aestimant in eis esse perfectum bonum; unde in eis finem constituendo, peccant et verum bonum perdunt. Et hoc damnum homini innotescit per rectum iudicium de creaturis, quod habetur per donum scientiae. Et ideo beatitudo luctus ponitur respondere dono scientiae” (Summa Theol., 2-2, q. 9, a. 4, co.).

 

(40) “et généralement il était rempli de cette mélancolie surnaturelle que donne le sentiment profond des choses invisibles. Quand il apercevait de loin les toits pressés d'une ville ou d'un bourg, la pensée des misères des hommes et de leurs péchés le plongeait dans une réflexion triste dont le contre-coup apparaissait aussitôt sur son visage” (Henri-Dominique Lacordaire, Vie de Saint Dominique, Paris, Librairie Poussielgue Frères, 18717, pag. 248).

 

(41) Tous les jours, à moins qu'une église ne lui manquât , il offrait à Dieu le saint sacrifice avec une grande abondance de larmes; car il lui était impossible de célébrer les divins mystères sans attendrissement. Lorsque le cours des cérémonies lui annonçait l'approche de Celui qu'il avait aimé de préférence dès ses jeunes années, on s'en apercevait à l'émotion de tout son être; une larme n'attendait pas l'autre sur son visage pâle et rayonnant” (Ibid., pagg. 245-246).

 

(42) “Scisne, filia, quae tu es, et quis ego sum? Si haec duo noveris, beata eris. Tu enim es illa, quae non es; ego autem sum ille, qui sum” (Raimondo da Capua, Vita Sanctae Catherinae senensis (Legenda maior), 2,6; Vita, Auctore Fr. Raimundo Capuano... Ex editione Coloniensi collata cum MS, in: Acta Sanctorum, Aprilis, Tomus III, Anversa, Apud Michaelem Cnobarum, 1675, pag. 876).

 

(43) Sunt autem multa genera eorum quae interius latent, ad quae oportet cognitionem hominis quasi intrinsecus penetrare. Nam sub accidentibus latet natura rerum substantialis, sub verbis latent significata verborum, sub similitudinibus et figuris latet veritas figurata: res etiam intelligibiles sunt quodammodo interiores respectu rerum sensibilium quae exterius sentiuntur, et in causis latent effectus et e converso. Unde respectu horum omnium potest dici intellectus. Sed cum cognitio hominis a sensu incipiat, quasi ab exteriori, manifestum est quod quanto lumen intellectus est fortius, tanto potest magis ad intima penetrare. Lumen autem naturale nostri intellectus est finitae virtutis, unde usque ad determinatum aliquid pertingere potest. Indiget igitur homo supernaturali lumine ut ulterius penetret ad cognoscendum quaedam quae per lumen naturale cognoscere non valet. Et illud lumen supernaturale homini datum vocatur donum intellectus” (Summa Theol., 2-2, q. 8, a. 1, co.).

 

(44) “une simple vue, regard ou attention amoureuse en soi vers quelque objet divin [...] L’âme quittant donc le raisonnement, se sert d’una douce contemplation qui la tient paisible, attentive et susceptible des opérations et impessions divines, que le Saint-Esprit lui communique: elle fait peu et reçoit beaucoup: son travail est doux et néanmoins plus fructueux” (Jacques Bénigne Bossuet, Manière courte et facile pour faire l'oraison en foi, et de simple présence de Dieu, in: Oeuvres complètes de Bossuet, Tomo III, Besançon, Outhenin-Chalandre Fils Editeur, 1836, pag. 501).

 

(45) “Le cœur a ses raisons, que la raison ne connaît point. On le sent en mille choses. C'est le cœur qui sent Dieu, et non la raison. Voilà ce que c'est que la foi parfaite, Dieu sensible au cœur”

(Pascal, Pensées, n. 423-277).

 

(46) “Dieu est celui qui est: tout ce qui est et existe, est et existe, par lui: il est cet Etre vivant en qui tout vite t tout respire.. Il n’y a qu’a consentir et qu’a adhérer à la vérité de l’Etre de Dieu: conséntir à la vérité, cet acte seul suffit. Prenez garde que je dis consentir à la vérité, car Dieu est le seul Etre vrai. Adhérer à la véritè, consentir òà la vérité, c’est adhérer à Dieu, c’est mettre Dieu en possession du droit qu’il a sur nous. Cet acte seul comprend tous les actes; c’est le plus grand, c’est le plus élevé que nous puissions faire” (Jacques-Bénigne Bossuet, Discours aux Filles de la Visitation, sur la mort, le jour du décès de M. Mutelle, leur confesseur, in: Oeuvres complètes de Bossuet, Tomo III, Besançon, Outhenin-Chalandre Fils Editeur, 1836, pag. 544).

 

(47) “hic duplici distinctione est opus, una quidem ex parte fidei; alia autem ex parte intellectus. Ex parte quidem fidei, distinguendum est quod quaedam per se et directe cadunt sub fide, quae naturalem rationem excedunt, sicut Deum esse trinum et unum, filium Dei esse incarnatum. Quaedam vero cadunt sub fide quasi ordinata ad ista secundum aliquem modum, sicut omnia quae in Scriptura divina continentur. Ex parte vero intellectus, distinguendum est quod dupliciter dici possumus aliqua intelligere. Uno modo, perfecte, quando scilicet pertingimus ad cognoscendum essentiam rei intellectae, et ipsam veritatem enuntiabilis intellecti, secundum quod in se est. Et hoc modo ea quae directe cadunt sub fide intelligere non possumus, durante statu fidei. Sed quaedam alia ad fidem ordinata etiam hoc modo intelligi possunt. Alio modo contingit aliquid intelligi imperfecte, quando scilicet ipsa essentia rei, vel veritas propositionis, non cognoscitur quid sit aut quomodo sit, sed tamen cognoscitur quod ea quae exterius apparent veritati non contrariantur; inquantum scilicet homo intelligit quod propter ea quae exterius apparent non est recedendum ab his quae sunt fidei. Et secundum hoc nihil prohibet, durante statu fidei, intelligere etiam ea quae per se sub fide cadunt (Summa Theol., 2-2, q. 8, a. 2, co.).

 

(48) “Item dixit quod per lumen vivae fidei, clare concepit et vidit in mente, quod quidquid accidebat sibi vel aliis, totum procederet a Deo, non ex odio, sed ex amore magno, quem habet ad creaturas suas” (Raimondo da Capua, Vita Sanctae Catherinae senensis (Legenda maior), 3,3; Vita, Auctore Fr. Raimundo Capuano... Ex editione Coloniensi collata cum MS, in: Acta Sanctorum, Aprilis, Tomus III, Anversa, Apud Michaelem Cnobarum, 1675, pag. 944).

 

(49) “duplex est Dei visio. Una quidem perfecta, per quam videtur Dei essentia. Alia vero imperfecta, per quam, etsi non videamus de Deo quid est, videmus tamen quid non est, et tanto in hac vita Deum perfectius cognoscimus quanto magis intelligimus eum excedere quidquid intellectu comprehenditur. Et utraque Dei visio pertinet ad donum intellectus, prima quidem ad donum intellectus consummatum, secundum quod erit in patria; secunda vero ad donum intellectus inchoatum, secundum quod habetur in via” (Summa Theol., 2-2, q. 8, a. 7, co.).

 

(50) “Oportet igitur omnem pertransire creaturam, et se ipsum perfecte deserere ac in excessu mentis stare, et videre te omnium Conditorem cum creaturis nil simile habere. Et nisi quis ab omnibus creaturis fuerit expeditus, non poterit libere intendere divinis. Ideo enim pauci inveniuntur contemplativi, quia pauci sciunt se a perituris creaturis ad plenum sequestrari” (De imitatione Christi, l. 3, c. 31, 1).

 

(51) Credere est cum assensione cogitare: “Cogitatio quippe nostra proveniens ad id quod scimus atque inde formata verbum nostrum verum est. Et ideo verbum Dei sine cogitatione debet intelligi, non aliquid habens formabile, quod possit esse informe. Et secundum hoc cogitatio proprie dicitur motus animi deliberantis nondum perfecti per plenam visionem veritatis. Sed quia talis motus potest esse vel animi deliberantis circa intentiones universales, quod pertinet ad intellectivam partem; vel circa intentiones particulares, quod pertinet ad partem sensitivam, ideo cogitare secundo modo sumitur pro actu intellectus deliberantis; tertio modo, pro actu virtutis cogitativae. Si igitur cogitare sumatur communiter, secundum primum modum, sic hoc quod dicitur cum assensione cogitare non dicit totam rationem eius quod est credere, nam per hunc modum etiam qui considerat ea quae scit vel intelligit cum assensione cogitat. Si vero sumatur cogitare secundo modo, sic in hoc intelligitur tota ratio huius actus qui est credere. Actuum enim ad intellectum pertinentium quidam habent firmam assensionem absque tali cogitatione, sicut cum aliquis considerat ea quae scit vel intelligit, talis enim consideratio iam est formata. Quidam vero actus intellectus habent quidem cogitationem informem absque firma assensione, sive in neutram partem declinent, sicut accidit dubitanti; sive in unam partem magis declinent sed tenentur aliquo levi signo, sicut accidit suspicanti; sive uni parti adhaereant, tamen cum formidine alterius, quod accidit opinanti. Sed actus iste qui est credere habet firmam adhaesionem ad unam partem, in quo convenit credens cum sciente et intelligente, et tamen eius cognitio non est perfecta per manifestam visionem, in quo convenit cum dubitante, suspicante et opinante. Et sic proprium est credentis ut cum assensu cogitet, et per hoc distinguitur iste actus qui est credere ab omnibus actibus intellectus qui sunt circa verum vel falsum.” (Summa Theol., 2-2, q. 2, a. 1, co.).

 

(52) Spiritus autem Sanctus habitat in nobis per caritatem, secundum illud Rom. V, caritas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum, qui datus est nobis, sicut et ratio nostra perficitur per prudentiam. Unde sicut virtutes morales connectuntur sibi invicem in prudentia, ita dona Spiritus Sancti connectuntur sibi invicem in caritate, ita scilicet quod qui caritatem habet, omnia dona Spiritus Sancti habet; quorum nullum sine caritate haberi potest” (Summa Theol., 1-2, q. 68, a. 5, co.).

 

(53) “cet acte doit être fait sans effort, par un retour de tout le coeur vers Dieu. Il doit être, je cherche un terme pour m’expliquer, il doit être affectueux, tendre, sensible. Me comprenez-vous bien? Mais me comprends-je bien moi-même? Car c’est un certain mouvement du coeur qui n’est point sensible de la sensibilité humaine, mais qui naît de cette joie pure de l’esprit. Et partant, réjouissez-vous et dites seulement en tout temps: Je consens, mon Dieu, à toute la vérité de votre être; je fais mon bonheur de ce que vous êtes; c’est ma béatitude anticipée; c’est mon paradis à présent et ce sera mon paradis dans le paradis. Amen.” (Jacques-Bénigne Bossuet,  Discours aux Filles de la Visitation, sur la mort, le jour du décès de M. Mutelle, leur confesseur, in: Oeuvres complètes de Bossuet, Tomo III, Besançon, Outhenin-Chalandre Fils Editeur, 1836, pag. 544).

 

(54) “Et ideo ut ratio D. Thomæ concludat de dono intellectus, addendum est ex doctrina ejusdem sancti doctoris in secunda secundæ, quæst. VIII, art. II, quod donum intellectus de sua formali ratione ordinatur ad intelligendum clare, vel imperfecte, vel perfecte, non ad credendum sicut dicitur Psalm. XXXIII: Gustate et videte, quia super gustum, et experientiam fundatur evidentia, scilicet evidentia mystica, affectiva et experimentalis. Intelligere enim ut distinguitur a credere semper est cum aliqua evidentia, sive extrinseca, sive intrinseca, sive positiva, sive negativa. Quod autem in hac vita non perveniat ad perfectam visionem non est ex defectu propriæ rationis formalis, sed quia materia non est debite disposita ut videatur in se: Quia ambulamus per fidem et per speciem, sicut oculus ex ratione formali potentiæ visivæ solum petit evidentem, et experimentalem cognitionem objecti visibilis, per accidens tamen ex defectu applicationis objecti, et luminis, ut quia objectum non est in debita distantia, contingit confuse, et imperfecte videre. Donum ergo intellectus cum ex illustratione Spiritus sancti moveat mentem ad hoc ut recte penetret, et intelligat ea, quæ sibi proponuntur, de se et ex suo formali motivo evidentiam exigit, et facit eam, quam potest juxta propositam materiam, ita quod hic in via dum ambulamus per fidem, et res proponuntur ex auditu, solum facit evidentiam quasi extrinsecam, et negativam.” (cfr. Joannis a Sancto Thoma, in portoghese João Poinsot, Cursus Theologicus, 1-2, q. 70, disp. 18, a. 3, 37).

 

(55) “s’il l’est vrai, comme il l’est, que nous soyons d’autant plus agissants, que nous sommes plus poussés, plus mus, plus animés par le Saint-Esprit; cet acte par lequel nous nous y livrons, et à l’action qu’il fait en nous, nous met, pour ainsi parler, tout en action pour Dieu” (Jacques-Bénigne Bossuet, Discours sur l’acte d’abandon à Dieu, ses caractères, ses conditions et ses effects, in: Oeuvres complètes de Bossuet, Tomo III, Besançon, Outhenin-Chalandre Fils Editeur, 1836, pag. 516).

 

(56) “in sexta beatitudine, sicut et in aliis, duo continentur, unum per modum meriti, scilicet munditia cordis; aliud per modum praemii, scilicet visio Dei, ut supra dictum est. Et utrumque pertinet aliquo modo ad donum intellectus. Est enim duplex munditia. Una quidem praeambula et dispositiva ad Dei visionem, quae est depuratio affectus ab inordinatis affectionibus, et haec quidem munditia cordis fit per virtutes et dona quae pertinent ad vim appetitivam. Alia vero munditia cordis est quae est quasi completiva respectu visionis divinae, et haec quidem est munditia mentis depuratae a phantasmatibus et erroribus, ut scilicet ea quae de Deo proponuntur non accipiantur per modum corporalium phantasmatum, nec secundum haereticas perversitates. Et hanc munditiam facit donum intellectus” (Summa Theol., 2-2, q. 8, a. 7, co.).

 

(57) “dona sunt quaedam hominis perfectiones, quibus homo disponitur ad hoc quod bene sequatur instinctum divinum. Unde in his in quibus non sufficit instinctus rationis, sed est necessarius Spiritus Sancti instinctus, per consequens est necessarium donum. Ratio autem hominis est perfecta dupliciter a Deo, primo quidem, naturali perfectione, scilicet secundum lumen naturale rationis; alio modo, quadam supernaturali perfectione, per virtutes theologicas, ut dictum est supra. Et quamvis haec secunda perfectio sit maior quam prima, tamen prima perfectiori modo habetur ab homine quam secunda, nam prima habetur ab homine quasi plena possessio, secunda autem habetur quasi imperfecta; imperfecte enim diligimus et cognoscimus Deum. Manifestum est autem quod unumquodque quod perfecte habet naturam vel formam aliquam aut virtutem, potest per se secundum illam operari, non tamen exclusa operatione Dei, qui in omni natura et voluntate interius operatur. Sed id quod imperfecte habet naturam aliquam vel formam aut virtutem, non potest per se operari, nisi ab altero moveatur. [...] Sic igitur quantum ad ea quae subsunt humanae rationi, in ordine scilicet ad finem connaturalem homini, homo potest operari per iudicium rationis. Si tamen etiam in hoc homo adiuvetur a Deo per specialem instinctum, hoc erit superabundantis bonitatis, unde secundum philosophos, non quicumque habebat virtutes morales acquisitas, habebat virtutes heroicas vel divinas. Sed in ordine ad finem ultimum supernaturalem, ad quem ratio movet secundum quod est aliqualiter et imperfecte formata per virtutes theologicas, non sufficit ipsa motio rationis, nisi desuper adsit instinctus et motio Spiritus Sancti, secundum illud Rom. VIII, qui Spiritu Dei aguntur, hi filii Dei sunt; et si filii, et haeredes, et in Psalmo CXLII dicitur, spiritus tuus bonus deducet me in terram rectam; quia scilicet in haereditatem illius terrae beatorum nullus potest pervenire, nisi moveatur et deducatur a Spiritu Sancto. Et ideo ad illum finem consequendum, necessarium est homini habere donum Spiritus Sancti. (Summa Theol., 1-2, q. 68, a. 2, co.).

“in omnibus habentibus gratiam necesse est esse rectitudinem voluntatis, quia per gratiam praeparatur voluntas hominis ad bonum, ut Augustinus dicit. Voluntas autem non potest recte ordinari in bonum nisi praeexistente aliqua cognitione veritatis, quia obiectum voluntatis est bonum intellectum, ut dicitur in III de anima. Sicut autem per donum caritatis Spiritus Sanctus ordinat voluntatem hominis ut directe moveatur in bonum quoddam supernaturale, ita etiam per donum intellectus illustrat mentem hominis ut cognoscat veritatem quandam supernaturalem, in quam oportet tendere voluntatem rectam. Et ideo, sicut donum caritatis est in omnibus habentibus gratiam gratum facientem, ita etiam donum intellectus” (Summa Theol., 2-2, q. 8, a. 4, co.).

 

(58) Non sappiamo mai, di scienza certa, se noi abbiamo la grazia. Ma lo dobbiamo sperare, seppure non abbiamo coscienza di un peccato mortale e se serviamo Dio con buona volontà. Nelle anime sinceramente cristiane lo Spirito Santo aggiunge spesso, alla testimonianza della loro coscienza, la sua propria testimonianza. Donde proviene uno stato di certezza pratica, che, pur lasciando luogo al timore, dà all'attività del fedele un punto di appoggio rassicurante.

 

(59) hujus quaestionis veritatem solus ille scire potest qui natus et oblatus est, quia voluit. Ea enim quae ex sola Dei voluntate dependent, nobis ignota sunt, nisi inquantum nobis innotescunt per auctoritates sanctorum, quibus Deus suam voluntatem revelavit: et quia in canone Scripturae et dictis sanctorum expositorum, haec sola assignatur causa incarnationis, redemptio scilicet hominis a servitute peccati; ideo quidam probabiliter dicunt, quod si homo non peccasset, filius Dei homo non fuisset: quod etiam ex verbis Leonis Papae in sermone de Trinitate expresse habetur. Si enim, inquit, homo ad imaginem et similitudinem Dei factus, in suo honore mansisset, creator mundi creatura non fieret, aut sempiternus temporalitatem subiret, aut aequalis Deo patri Dei filius formam servi assumeret. Item Augustinus in oratione ad beatam virginem: ut quid enim nescium peccati pro peccatoribus pareres, si deesset qui peccasset? Aut quid mater fieres salvatoris, si nulla esset indigentia salutis? Item super illud Matth. 1: ipse enim salvum faciet populum suum, Augustinus: si homo non peccasset, virgo non peperisset. Alii vero dicunt, quod cum per incarnationem filii Dei non solum liberatio a peccato, sed etiam humanae naturae exaltatio, et totius universi consummatio facta sit; etiam peccato non existente, propter has causas incarnatio fuisset: et hoc etiam probabiliter sustineri potest” (Super Sent., lib. 3 d. 1 q. 1 a. 3 co.).

 

(60) “Et ideo, ad consummatam hominis perfectionem, conveniens fuit ut ipsum verbum Dei humanae naturae personaliter uniretur. Secundo potest accipi ratio huius congruentiae ex fine unionis, qui est impletio praedestinationis, eorum scilicet qui praeordinati sunt ad hereditatem caelestem, quae non debetur nisi filiis, secundum illud Rom. VIII, filii et heredes. Et ideo congruum fuit ut per eum qui est filius naturalis, homines participarent similitudinem huius filiationis secundum adoptionem, sicut apostolus ibidem dicit, quos praescivit et praedestinavit conformes fieri imagini filii eius. Tertio potest accipi ratio huius congruentiae ex peccato primi parentis, cui per incarnationem remedium adhibetur. Peccavit enim primus homo appetendo scientiam, ut patet ex verbis serpentis promittentis homini scientiam boni et mali. Unde conveniens fuit ut per verbum verae sapientiae homo reduceretur in Deum, qui per inordinatum appetitum scientiae recesserat a Deo” (Summa Theol., 3, q. 3 a. 8, co.).

“omne opus divinum ex potentia, sapientia et bonitate procedit; sed tamen opus aliquod appropriatur potentiae, sapientiae vel bonitati, secundum quod in eo mirabilius apparet id quod pertinet ad aliquod praedictorum attributorum. Potentia autem importat absolutam rationem principii aliquid producentis; sed sapientiae est ordinare; unde ad sapientiam pertinet modus producendi rem, quo aliquid ordinare in esse producitur; sed bonitas, quae habet rationem finis, respicit motivum ad producendum: et ideo in opere creationis, in quo admirabile redditur hoc praecipue quod res in esse productae sunt, manifestatur maxime divina potentia; sed in opere gubernationis, quo res ordinatae disponuntur, redditur ipse ordo rerum admirabilis, et ideo sapientiae attribuitur; sed opus recreationis admirabile redditur ex ipso motivo, quia non ex operibus justitiae quae fecimus, sed propter suam bonitatem salvos nos fecit; unde attribuitur praecipue bonitati. Et quia ex hoc aliquid dicitur misericorditer esse factum quod non ex debito datur, sed ex bonitate largientis; ideo opus misericordiae, inquantum hujusmodi, bonitati appropriatur(Super Sent., lib. 4 d. 46 q. 2 a. 1 qc. 3 co.).

Deus dicitur parcendo et miserendo suam omnipotentiam maxime manifestare, non tam quoad substantiam facti, quam quoad licentiam faciendi; ille enim qui est alicui superiori potestati subjectus, non potest licite dimittere poenas a superiori potestate constitutas. Ex hoc ergo quod Deus poenas dimittit, et supra debitum largitur; ostenditur quod ipse ex propria potestate et auctoritate omnia operatur; et quod ipse non est superiori potestati subjectus. Sed quantum ad substantiam facti praecipue manifestatur bonitas in parcendo; et ideo opus misericordiae bonitati est attribuendum (Super Sent., lib. 4 d. 46 q. 2 a. 1 qc. 3 ad 1).

justificare impium dicitur majus quam creare caelum et terram, inquantum ad nobilius esse perducitur quis per justificationem quam per creationem; vel inquantum in creatione non est aliquid quod repugnet creanti, cum sit ex nihilo, sicut in justificatione repugnat justificanti inordinata voluntas. Unde quamvis opus justificationis potentiam manifestet, specialiter tamen commendat bonitatem, inquantum ipsa est sola quae ad justificandum movet, cum ex parte justificandi magis inveniatur quod justificationi repugnet” (Super Sent., lib. 4 d. 46 q. 2 a. 1 qc. 3 ad 2).

 

(61) “aliqui circa hoc diversimode opinantur. Quidam enim dicunt quod, etiam si homo non peccasset, Dei filius fuisset incarnatus. Alii vero contrarium asserunt. Quorum assertioni magis assentiendum videtur. Ea enim quae ex sola Dei voluntate proveniunt, supra omne debitum creaturae, nobis innotescere non possunt nisi quatenus in sacra Scriptura traduntur, per quam divina voluntas innotescit. Unde, cum in sacra Scriptura ubique incarnationis ratio ex peccato primi hominis assignetur, convenientius dicitur incarnationis opus ordinatum esse a Deo in remedium peccati, ita quod, peccato non existente, incarnatio non fuisset. Quamvis potentia Dei ad hoc non limitetur, potuisset enim, etiam peccato non existente, Deus incarnari” (Summa Theol., 3, q. 1, a. 3,. co.).

 

(62) “Huiusmodi autem compassio sive connaturalitas ad res divinas fit per caritatem, quae quidem unit nos Deo, secundum illud I ad Cor. VI, qui adhaeret Deo unus spiritus est. Sic igitur sapientia quae est donum causam quidem habet in voluntate, scilicet caritatem, sed essentiam habet in intellectu, cuius actus est recte iudicare, ut supra habitum est (Summa Theol., 2-2, q. 45, a. 2, co.).

 

(63) “sapientia de qua loquimur, sicut dictum est, importat quandam rectitudinem iudicii circa divina et conspicienda et consulenda. Et quantum ad utrumque, ex unione ad divina secundum diversos gradus aliqui sapientiam sortiuntur. Quidam enim tantum sortiuntur de recto iudicio, tam in contemplatione divinorum quam etiam in ordinatione rerum humanarum secundum divinas regulas, quantum est necessarium ad salutem. Et hoc nulli deest sine peccato mortali existenti per gratiam gratum facientem, quia si natura non deficit in necessariis, multo minus gratia. Unde dicitur I Ioan. II, unctio docet vos de omnibus. Quidam autem altiori gradu percipiunt sapientiae donum, et quantum ad contemplationem divinorum, inquantum scilicet altiora quaedam mysteria et cognoscunt et aliis manifestare possunt; et etiam quantum ad directionem humanorum secundum regulas divinas, inquantum possunt secundum eas non solum seipsos, sed etiam alios ordinare. Et iste gradus sapientiae non est communis omnibus habentibus gratiam gratum facientem, sed magis pertinet ad gratias gratis datas, quas Spiritus Sanctus distribuit prout vult, secundum illud I ad Cor. XII, alii datur per Spiritum sermo sapientiae, et cetera” (Summa Theol., 2-2, q. 45, a. 5, co.).

 

(64) “septima beatitudo congrue adaptatur dono sapientiae et quantum ad meritum et quantum ad praemium. Ad meritum quidem pertinet quod dicitur, beati pacifici. Pacifici autem dicuntur quasi pacem facientes vel in seipsis vel etiam in aliis. Quorum utrumque contingit per hoc quod ea in quibus pax constituitur ad debitum ordinem rediguntur, nam pax est tranquillitas ordinis, ut Augustinus dicit, XIX de Civ. Dei. Ordinare autem pertinet ad sapientiam; ut patet per philosophum, in principio Metaphys. Et ideo esse pacificum convenienter attribuitur sapientiae. Ad praemium autem pertinet quod dicitur, filii Dei vocabuntur. Dicuntur autem aliqui filii Dei inquantum participant similitudinem Filii unigeniti et naturalis, secundum illud Rom. VIII, quos praescivit conformes fieri imaginis Filii sui, qui quidem est sapientia genita. Et ideo percipiendo donum sapientiae, ad Dei filiationem homo pertingit” (Summa Theol., 2-2, q. 45, a. 6, co.).

 

(65) “Quis mortálium, nisi divíno tutus oráculo, de vera Dei et hóminis Genitríce quidquam módicum, sive grande præsúmat incircumcísis, immo pollútis lábiis nomináre, quam Pater ante sæcula Deus perpétuam prædestinávit in Vírginem, digníssimam Fílius elégit in Matrem, Spíritus Sanctus omnis grátiæ domicílium præparávit? Quibus verbis ego homúnculus sensus altíssimos virgínei Cordis, sanctíssimo ore prolátos, éfferam, quibus non súfficit lingua ómnium Angelórum? Dóminus enim ait : Bonus homo de bono thesáuro cordis profert bona ; quod verbum potest étiam esse thesáurus. Quis inter puros hómines mélior homo potest excogitári, quam illa, quæ méruit éffici Mater Dei, quæ novem ménsibus in corde et in útero suo ipsum Deum hospitáta est? Quis thesáurus mélior, quam ipse divínus amor quo fornáceum cor Vírginis ardens erat?

De hoc ígitur Corde quasi de fornáce divíni ardóris Virgo beáta prótulit verba bona, id est, verba ardentíssimæ caritátis. Sicut enim a vase summo et óptimo vino pleno, non potest exíre nisi óptimum vinum ; aut sicut a fornáce summi ardóris non egréditur nisi incéndium fervens; sic quippe a Christi Matre exíre non pótuit verbum, nisi summi summéque divíni amóris atque ardóris. Sapiéntis quoque dóminæ et matrónæ est pauca verba, sólida tamen atque sententiósa habére ; proínde septem vícibus quasi septem verba tantum miræ senténtiæ et virtútis a Christi benedictíssima Matre legúntur dicta, ut mystice ostendátur ipsam fuísse plenam grátia septifórmi. Cum Angelo bis tantúmmodo est locúta. Cum Elísabeth bis étiam. Cum Fílio étiam bis, semel in templo, secúndo in núptiis. Cum minístris semel. Et in his ómnibus semper valde parum locúta est; excépto quod in laude Dei et gratiárum actióne se ámplius dilatávit, scílicet, quum ait: Magníficat ánima mea Dóminum. Ubi non cum hómine, sed cum Deo locúta fuit. Hæc septem verba secúndum septem amóris procéssus et actus sub miro gradu et órdine sunt proláta; quasi sint septem flammæ fornácei Cordis ejus.” (Breviarium Romanum, Ufficio del Purissimo Cuore della Beata Vergine Maria, Lezione del Secondo Notturno, Sermone di San Bernardino da Siena: sermo IX de Visitatione).

 

(66) In tutti i testi che seguono abbiamo riprodotto la versione del Padre Marco M. Sales, O. P. (La Sacra Bibbia commentata dal P. Marco M. Sales O.P., Professore di Sacra Scrittura nel Collegio Angelico di Roma; Testo latino della Volgata e versione italiana di Mons. Antonio Martini, riveduta e corretta, in due volumi: 1. I quattro Evangeli ; Gli Atti degli Apostoli; Torino, Libreria del Sacro Cuore Cav. G. B. Berruti; Tipografia Pontificia Cav. P. Marietti, 1912; 2. Le Lettere degli Apostoli ; L'Apocalisse, Torino, Libreria del Sacro Cuore Cav. G. B. Berruti; Tipografia Pontificia Cav. P. Marietti, 1914).

 

(67) a Spiritu Sancto movetur animus hominis ad hoc quod perveniat ad finem cuiuslibet operis inchoati, et evadat quaecumque pericula imminentia. Quod quidem excedit naturam humanam, quandoque enim non subest potestati hominis ut consequatur finem sui operis, vel evadat mala seu pericula, cum quandoque opprimatur ab eis in mortem. Sed hoc operatur spiritus sanctus in homine, dum perducit eum ad vitam aeternam, quae est finis omnium bonorum operum et evasio omnium periculorum. Et huius rei infundit quandam fiduciam menti Spiritus Sanctus, contrarium timorem excludens. (Summa Theol., 2-2, q. 139, a. 1, co.).

 

 

(68) in lectulo meo per noctes quaesivi quem diligit anima mea quaesivi illum et non inveni. Surgam et circuibo civitatem per vicos et plateas quaeram quem diligit anima mea quaesivi illum et non inveni. Invenerunt me vigiles qui custodiunt civitatem <num quem dilexit anima mea vidistis ?> Paululum cum pertransissem eos inveni quem diligit anima mea. Tenui eum nec dimittam donec introducam illum in domum matris meae et in cubiculum genetricis meae” (Cantico dei Cantici 3,1-4).

 

(69) S. Ambrogio citato da S. Tommaso. “Neque enim civitas illa Jerusalem coelestis meatu alicujus fluvii terrestris abluitur: sed ille ex vitae fonte procedens Spiritus Sanctus, cujus nos brevi satiamur haustu, in illis coelistibus Thronis, Dominationibus et Potestatibus, Angelis et Archangelis redundantius videtur effluere, pleno septem virtutum spiritalium fervens meatu” (S. Ambrogio, De Spiritu Sancto libi tres, lib. 1, c. 16, 158; in: Migne Patrologia Latina 16, 740). “Sed contra est quod Ambrosius dicit, in libro de Spiritu Sancto, civitas Dei illa, Ierusalem caelestis, non meatu alicuius fluvii terrestris abluitur; sed ex vitae fonte procedens Spiritus Sanctus, cuius nos brevi satiamur haustu, in illis caelestibus spiritibus redundantius videtur affluere, pleno septem virtutum spiritualium fervens meatu” (Summa Theol., 1-2, q. 68, a. 6, s.c.).

 

(70) “de donis dupliciter possumus loqui. Uno modo, quantum ad essentiam donorum, et sic perfectissime erunt in patria, sicut patet per auctoritatem Ambrosii inductam. Cuius ratio est quia dona Spiritus Sancti perficiunt mentem humanam ad sequendam motionem Spiritus Sancti, quod praecipue erit in patria, quando Deus erit omnia in omnibus, ut dicitur I ad Cor. XV, et quando homo erit totaliter subditus Deo. Alio modo possunt considerari quantum ad materiam circa quam operantur, et sic in praesenti habent operationem circa aliquam materiam circa quam non habebunt operationem in statu gloriae. Et secundum hoc, non manebunt in patria, sicut supra de virtutibus cardinalibus dictum est” (Summa Theol., 1-2, q. 68, a. 6, co.).

 

(71) “Ad secundum dicendum quod Gregorius quasi in singulis donis ponit aliquid quod transit cum statu praesenti, et aliquid quod permanet etiam in futuro. Dicit enim quod sapientia mentem de aeternorum spe et certitudine reficit, quorum duorum spes transit, sed certitudo remanet. Et de intellectu dicit quod in eo quod audita penetrat, reficiendo cor, tenebras eius illustrat, quorum auditus transit, quia non docebit vir fratrem suum, ut dicitur Ierem. XXXI; sed illustratio mentis manebit. De consilio autem dicit quod prohibet esse praecipitem, quod est necessarium in praesenti, et iterum quod ratione animum replet, quod est necessarium etiam in futuro. De fortitudine vero dicit quod adversa non metuit, quod est necessarium in praesenti, et iterum quod confidentiae cibos apponit, quod permanet etiam in futuro. De scientia vero unum tantum ponit, scilicet quod ignorantiae ieiunium superat, quod pertinet ad statum praesentem. Sed quod addit, in ventre mentis, potest figuraliter intelligi repletio cognitionis, quae pertinet etiam ad statum futurum. De pietate vero dicit quod cordis viscera misericordiae operibus replet. Quod quidem secundum verba, pertinet tantum ad statum praesentem. Sed ipse intimus affectus proximorum, per viscera designatus, pertinet etiam ad futurum statum; in quo pietas non exhibebit misericordiae opera, sed congratulationis affectum. De timore vero dicit quod premit mentem, ne de praesentibus superbiat, quod pertinet ad statum praesentem; et quod de futuris cibo spei confortat, quod etiam pertinet ad statum praesentem, quantum ad spem; sed potest etiam ad statum futurum pertinere, quantum ad confortationem de rebus hic speratis, et ibi obtentis” (Ibid. ad 2).

Il testo di S. Gregorio Magno che viene liberamente citato da S. Tommaso: “Filii per domos convivium faciunt, dum virtutes singulae iuxta modum proprium mentem pascunt. Et bene dicitur: Unusquisque in die suo. Dies enim uniuscujusque filii, est illuminatio uniuscujusque virtutis. Ut enim haec ipsa dona breviter septiformis gratiae replicem, alium diem habet sapientia, alium intellectus, alium consilium, alium fortitudo, alium scientia, alium pietas, alium timor. Neque enim hoc est sapere, quod intelligere; quia multi aeterna quidem sapiunt, sed haec intelligere nequaquam possunt. Sapientia ergo in die suo convivium facit, quia mentem de aeternorum spe et certitudine reficit. Intellectus in die suo convivium parat; quia in eo quod audita penetrat, reficiendo cor, tenebras ejus illustrat. Consilium in die suo convivium exhibet; quia dum esse praecipitem prohibet, ratione animum replet. Fortitudo in die suo convivium facit; quia dum adversa non metuit, trepidanti menti cibos confidentiae apponit. Scientia in die suo convivium parat, quia in ventre mentis ignorantiae jejunium superat. Pietas in die suo convivium exhibet, quia cordis viscera misericordiae operibus replet. Timor in die suo convivium facit; quia dum premit mentem, ne de praesentibus superbiat, de futuris illam spei cibo confortat.” (Moralium Libri Sive Expositio In Librum Beati Job, 1, 32, in: Migne Patrologia Latina 75, 547).

 

(72) “non enim accepistis spiritum servitutis iterum in timore sed accepistis Spiritum adoptionis filiorum in quo clamamus Abba Pater. Ipse Spiritus testimonium reddit spiritui nostro quod sumus filii Dei. Si autem filii et heredes heredes quidem Dei coheredes autem Christi si tamen conpatimur ut et conglorificemur” (Romani 8,15-17).

 

(73) “similiter autem et Spiritus adiuvat infirmitatem nostram nam quid oremus sicut oportet nescimus sed ipse Spiritus postulat pro nobis gemitibus inenarrabilibus qui autem scrutatur corda scit quid desideret Spiritus quia secundum Deum postulat pro sanctis” (Romani 8,26-27).

 

 
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